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1915. In una piccola città della Turchia la guerra sembra lontana, lontane le persecuzioni contro la minoranza armena. È armena la famiglia Avakian, che apre la sua bella casa per il funerale del suo patriarca. Anche il Colonnello Arkan, rappresentante della autorità turca, viene a rendere omaggio. “Grazie di questo gesto di pace…” gli mormora Aram, a nome della famiglia. Dopo molti anni tornerà dall’Italia il figlio maggiore Assadour, che esercita a Padova la professione di medico: a lui il padre ha lasciato la vecchia Masseria delle Allodole. Aram con la moglie Armineh, vivace ed esuberante, la zia Hasmig, il piccolo Avetis e le sue sorelle si preparano ad accoglierlo con impazienza, mentre Nunik, giovane ed esuberante, vive con angoscia la sua relazione nascosta con Egon, un giovane ufficiale turco. Un amore pericoloso, impossibile... |
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I fratelli Taviani ritornano nelle sale con “La masseria delle allodole” per raccontare, ispirandosi al romanzo omonimo di Antonia Arslan, la pagina forse più drammatica della storia turca, lo sterminio sistematico della popolazione armena ad opera di un esercito ottomano già attraversato dai furori nazionalistici che avrebbero condotto alla rivoluzione del 1917. Molto ancora resta da studiare e da scrivere al riguardo, e l’operazione va lodata quanto meno per gli intenti conoscitivi di cui si fa strumento; ma forse accontentandosi di questo tipo di riconoscimento i Taviani si dimenticano di star girando un film. Registicamente parlando, “La masseria delle allodole” è ineccepibile: le immagini sono molto belle, e sopperiscono (non del tutto però) alla povertà della scenografia e del set che affligge molta della produzione italiana; stesso dicasi per la fotografia. Ma la sceneggiatura è pessima: tra sequenze del tutto slegate tra loro, dialoghi di una ovvietà e sentenziosità imbarazzante, protagonisti che scompaiono senza alcuna spiegazione e un racconto che semplicemente non c’è, il film non trova né una sua direzione né una continuità narrativa. Gli attori sono tutti bravi, Paz Vega su tutti, ma la loro interpretazione sentita sembra paradossalmente fuori luogo se infilata in una storia che non emoziona e che ha, come altri hanno notato, dei tempi televisivi piuttosto che cinematografici.
Soprattutto, è lo spirito della messa in scena che lascia francamente infastiditi: i Taviani scelgono come già in altre occasioni di mostrare la violenza senza filtri, per fare emergere il dramma di una famiglia e di un popolo intero, ma in questo verismo estremo della ricostruzione storica emerge un forse involontario compiacimento morboso che allontana più che coinvolgere lo spettatore. Non c’è commozione per la sorte dei protagonisti ma disgusto per l’atrocità della loro fine, non c’è pietà per la vittime né odio per i carnefici ma rifiuto per una visione mortifera di un mondo senza nemmeno un raggio di speranza. Poco conta che la rappresentazione sia conforme alla realtà: il cinema non è documentario storico, e chi fa documentario storico non fa sicuramente un bel cinema. |
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