La scozzese Andrea Arnold pur avendo, al cinema, fatto pochissimo, ha già fatto molto bene agli occhi della critica internazionale, tanto da meritarsi l’oscar per il suo primo cortometraggio (Wasp, del 2003) e ora il premio della giuria a Cannes per questo “Red Road”, storia di abbrutimento umano e sociale nella Gran Bretagna ex industriale e nuova periferia dell’impero, con un’anima sbiadita e un’evidente scarsa fiducia nel futuro.
Red Road, strada nei sobborghi popolari e malfamati di Glasgow, con i suoi palazzi di trenta piani ficcati, come denti sparsi di una bocca decrepita, in mezzo alla brughiera, con i suoi abitanti che si arrabattano per vivere, che attraversano continuamente i confini della legalità, e che annaspano alla ricerca di rapporti umani, è l’immagine senza fronzoli di una realtà solo edulcorata, in altri ceti sociali, dal benessere materiale. La protagonista, Jackie, non è meno sola del suo polo attrattivo-repulsivo Clyde, i suoi rapporti con l’altro sesso non meno squallidi e fugaci. Gli schermi della sala controllo proiettano continuamente immagini di donne e uomini persi, ma una donna persa è anche quella che sta dall’altra parte, a trovare nell’esistenza altrui una ragione per la propria. E sarebbe difficile dire se sia più questa esigenza o il desiderio di vendetta (peraltro lasciato sempre volutamente sullo sfondo) a spingere Jackie a mescolare la sua vita con quella dell’uomo che le ha involontariamente distrutto la sua. La regista, nonché sceneggiatrice, è brava a mettere lo spettatore nella condizione di dover continuamente cambiare prospettiva per confrontarsi con un mondo grigio in cui il giusto o il sensato hanno perso molto del loro significato. Convince invece solo a tratti per altri aspetti, a partire dallo stile della messa in scena, dove in contrasto con l’idea buona di giocare sui toni del rosso, soprattutto delle luci, per dare continuità alla narrazione, vi è la scelta di immagini sporche, di una pellicola sgranata, di una sciatteria che, per quanto possa voler riflettere quella della realtà, sembra più che altro uno snobismo alla moda. Difficilmente sopportabile, poi, è l’ottica borghese di un mondo, quello povero delle periferie, presentato con un misto di curiosità morbosa e repulsione, nella prospettiva di chi, come la protagonista (e la regista?) vi si immerge con un qualche piacere di trasgressione, stando bene attenta però a tornare al momento opportuno tra le mura della sua villetta a schiera; così come l’esaltazione della famiglia, motore dell’azione, che rag-giunge momenti di quasi delirio (Jackie che dorme con le urne cinerarie del marito e della figlia). Un film talora affascinante, più volte disturbante, che ci lascia alla fine soli, come i protagonisti, come tutti gli altri. |