Il microcosmo del cadente Hotel Termos, continuamente disinfettato e tamponato nelle sue crepe, è gestito dall’attraente madre della protagonista. Quest’ultima, Amalia, è un’adolescente che frequenta con l’amica Josefina un circolo parrocchiale nel quale si discute di fede e vocazione.
Proprio durante un congresso che si tiene nell’albergo in cui vive, la giovane interpreterà l’incontro con il taciturno e frustrato dottor Jano, dal quale viene molestata, come segno di una missione da compiere: salvare il medico dal peccato.
Prodotto da Pedro Almodovar, “La nina santa” è un film per qualche aspetto insoddisfacente, per altri assolutamente straniante, ma che rivela la qualità di un sguardo che si sta affermando imperiosamente.
Una storia che tenta di narrare i tracciati del bene e del male non in distinzione, ma in legame. Un legame invisibile, sottile, parallelo e scomodo da definire, soprattutto quando un sistema di pensiero religioso obbliga ad attribuire alle cose un senso univoco.
Nella sua staticità, dietro ogni immagine di questa storia che si costruisce sulla “potenza” dei desideri, frustrazioni, sentimenti di colpa che governano i personaggi, è facile scoprire l’intuizione di quell’energia misteriosa ma evidente che regge i rapporti umani, delle tensioni sensuali che ne costituiscono gli umori.
Adolescenti impregnate di cattolicesimo in bilico fra perversione ed innocenza, misticismo e sensualità; la consistenza della materia umana, non potendo mai rivelarsi apertamente, si nasconde dietro espressioni di vita (quelle della madre, del dottor Jano o dei suoi colleghi, quella dell’insegnate di religione o della stessa Josefina) che generano difficoltà in chi, come Amalia, è troppo giovane per riuscire a giudicare e finisce per confondere inevitabilmente il senso delle cose.
Il risultato è il disorientamento delle nostre stesse sicurezze, così come la conclusione sospesa del film ci suggerisce una risposta che non è, sicuramente, quella ordinaria.
L’Argentina, così “esplicita” nel primo film di Lucrecia Martel (La Ciénaga), quella sensualità e malessere così evidenti, mutano ora in qualcosa di più segreto ed interiorizzato. Di meno compiuto, di più allusivo.
Un racconto di preghiere mormorate, di corpi e anime immobilizzati nelle paludi della contraddizione e dell’ambiguità.
Presentato in concorso al 57mo festival di Cannes (2004). |