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L'agente di cambio Edmond Burke, insicuro di se stesso e insoddisfatto della propria esistenza, plagiato da un indovino che gli fa credere di essere una persona dotata di poteri speciali, lascia moglie e casa per trasferirsi nella caotica New York, dove inizierà a condurre una vita all’insegna dell'eccesso e della trasgressione, tra sesso e omicidi. |
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Edmond è l’uomo americano medio, bianco, lavoratore, sposato, onesto cittadino, che scopre il lato vitale, ma anche violento, dell’esistenza nella sua prima notte vissuta pericolosamente, a confrontarsi con il diverso da sé, la donna, il nero, il marginale nella società e nella legalità. Nello spunto potrebbe richiamare “Un giorno di ordinaria follia”, ma se ne differenzia di molto nella misura in cui valuta e racconta la storia per quanto analoga di una uscita fragorosa dagli schemi: anzi ne ribalta quasi la prospettiva. La seconda possibilità, per Edmond e per il regista, è una possibilità di speranza, per quanto ardui e disperati possano essere i tentativi di raggiungerla; e, pur se con qualche parola di troppo, si avverte il tentativo di dire qualcosa di nuovo rispetto all’inevi-tabile morale consolatoria e un po’ miope di pellicole come quella di Joel Schumacher. Il finale può sembrare il più cupo possibile, ma così non è: e nel paradosso di una violenza che diventa quasi amore sta il difficile senso di una giornata non ordinaria di ribellione.
In effetti, “Edmond” è un’opera sui generis: non è un thriller, nonostante quanto annunciato dai cartelloni pubblicitari, né un noir, anche se ad entrambi i generi deve certi temi ed atmosfere: l’esplorazione del mondo scuro della notte, il delitto e la punizione. E’ un film di scarsa azione, ben sottolineata dai ripetuti e vani tentativi di Edmond di trovare una donna con cui passare la notte. Questo insieme con la recitazione impostata dei protagonisti (tanti grandi nomi di Hollywood relegati a parti nettamente minori, come Julia Stiles, Joe Mantegna e Mena Suvari; norma di molto cinema indipendente americano) rivela invece la sua origine teatrale, di dramma borghese nel vero senso della parola (con un inappuntabile William H. Macy come protagonista). La sceneggiatura, scritta da David Mamet a partire dalla sua pièce omonima, è incentrata su dialoghi che vogliono rassomigliare a riflessioni sui massimi sistemi, e che in definitiva vi riescono in maniera accettabile; gli ambienti pochi e poco importanti; la regia bella ma non indimenticabile. Una riflessione sull’esistenza, condotta con intenti spregiudicati e anche per questo meritori: chi ha la verità sul mondo, e chi è davvero felice, sono le domande che danno anima e sostanza alla rappresentazione. |