“Le ferie di Licu” è anzitutto un esempio encomiabile di cinema indipendente. Il regista, Vittorio Moroni, ha proseguito sulla strada tracciata col suo primo lungometraggio “Tu devi essere il lupo”, del 2005: all’epoca i falliti tentativi di trovare un produttore disposto a finanziare il film avevano spinto lui e il resto della troupe ad autodistribuirsi attraverso una associazione culturale, la Myself, costituita per l’occasione. Il successo insperato dell’operazione lo ha convinto che era il caso di riprovarci: la Myself ha lasciato il posto alla 50N, e stavolta c’è pure il contributo di Rai Cinema, ma la sostanza è identica: il pubblico, comprando il biglietto in anticipo, consente al regista e ai suoi collaboratori di pagarsi le copie da mandare nelle sale di lancio e una qualche campagna pubblicitaria. Con questa insolita veste distributiva “Le ferie di Licu” arriva nei cinema per raccontare, come un vero e proprio documentario piuttosto che come film, qualche mese della vita di un immigrato bengalese a Roma, Md Moazzem Hossain detto Licu (nella parte di se stesso e piacevolmente a suo agio davanti alla macchina da presa), alle prese con i suoi molti lavori e soprattutto con delle nozze inattese.
Moroni vuole raccontare la “schizofrenia” dell’integrazione in Occidente, tra influenze dell’ambiente culturale di arrivo e attaccamento a pratiche sociali del paese di partenza, in particolare tra individualismo della grande città europea e familismo delle comunità originarie, e lo fa nel modo più lampante parlando di una tradizione come i matrimoni combinati e della contraddizione esplosiva “tra libertà e desiderio” che essi fanno emergere. Lo fa con un linguaggio semplice, che nei momenti più felici diventa efficace, ma in quelli meno riusciti rischia la piattezza; lo spettatore tentennerà nel trovare poetico il cielo tra i tetti delle palazzine della borgata romana, o nel trovare il fanciullesco del popolo nell’ingenuità di molte considerazioni del protagonista. Per gran tratto comunque il regista riesce a comunicare accettabilmente colla sua platea, e ha anche un paio di spunti brillanti: per esempio il coloratissimo montaggio di immagini per raccontare le nozze di Licu e Fancy, con le incredibili (in tutti i sensi) musiche bengalesi. Insomma, l’aspetto artistico è davvero lasciato in secondo piano: resta la cronaca, ma almeno è una cronaca fatta come si deve. Ed è impagabile sentire Licu, col suo ciuffo alla Presley, sostenere con convinzione di essere un aficionado delle ultime novità dell’alta moda. |