Se in "L'isola" Kim Ki-duk aveva collocato al centro della sua attenzione la vicenda di due personaggi sullo sfondo per così dire astratto di un lago privo di qualsiasi contestualizzazione geografica, raggiungendo l'apice di un cinema che intrattiene un produttivo rapporto con il registro narrativo mitico, un cinema pieno di "accoppiamenti del favoloso con il quotidiano", con "Indirizzo sconosciuto", Kim introduce un elemento in più: la storia nazionale coreana con il suo carico di dolore e di lacerazioni.
Un ingresso in punta di piedi, che non stravolge il registro "favoloso" del cinema di Kim, ma introduce nel "quotidiano" una serie di notazioni sulla società, sulla storia e sulle origini di quel malessere, di quella frustrazione e di quella violenza che Kim vede pervadere il suo paese.
Al lago senza tempo di "The Isle" Kim sostituisce qui la Pyongtaek degli anni Settanta, una cittadina la cui vita ruota attorno ad una base militare statunitense. Nei suoi pressi vivono tre giovani: Chang-Guk, figlio illegittimo di una donna coreana e di un soldato afroamericano; Jihum, assistente di un ritrattista; Eunok, studentessa che a causa dei giochi di guerra del fratello ha perso da bambina la vista da un occhio.
L'origine del dolore, che in "L'isola" rimaneva un perturbante mistero, in "Indirizzo sconosciuto" è esplicitata con forza: senza che i tre giovani se ne rendano conto, le loro sono vite segnate dalla guerra di Corea, un conflitto che li ha marchiati in modo indelebile. La madre di Chang-Guk spedisce al padre del ragazzo delle lettere, che puntualmente le vengono restituite con la scritta "indirizzo sconosciuto": lettere mai recapitate, indirizzate a un destinatario scomparso nel nulla che ha lasciato una foto, un tatuaggio sul petto della donna e un figlio. Ogni tentativo di comunicazione, di recupero di una dimensione serena dell'esistenza è votata al fallimento, destinata com'è a trovare nei suoi interlocutori mutismo e indifferenza. Gli Stati Uniti sono un sogno crudele, un desiderio sempre frustrato che genera rabbia, dolore e impotenza.
E la ribellione dei personaggi, quando esplode, è del tutto velleitaria: incapaci di costruire il proprio sogno, feriti, menomati nella facoltà della vista, Chang-Guk, Jihum e Eunok sono figli di un dolore mai elaborato, di una violenza senza ragione e di una crudeltà senza fine.
Una crudeltà e una violenza che si ripetono di generazione in generazione, come una tara ereditaria.
Dopo la sorpresa di "Seom", Kim Ki-duk ha alzato la posta per un melodramma sadico e delirante di più complessa polifonia, che a metà percorso perde coscientemente ogni vera direzione narrativa e si rintana nei vicoli ciechi della solitudine dei personaggi, capaci di relazionarsi solo in termini di aggressione, violenza e delirio di possesso.
Spiazzante, carnale, metaforico: per chi avesse ancora dubbi che ogni vero melodramma si scrive solo con il "sangue".
Presentato al 59mo Festival di Venezia (2001). |