Con una mano Cannes dà, con l’altra toglie: assistendo a “Paranoid Park”, però, si ha la netta sensazione che il festival francese abbia sbagliato mano. Senza gridare al capolavoro (anche se in molti dopo la prima proiezione ci hanno provato), il nuovo film di Gus Van Sant è semplicemente migliore di “Elephant”, premiato con la Palma d’oro (nonché miglior regia) nel 2003.
Tornando a parlare di adolescenti, pur senza ostentare un completo dominio dell’argomento Van Sant inquadra una generazione: che abbiano o meno uno skate sotto i piedi, che appartengano alla borghesia di Portland o alle zone malfamate della periferia orientale, questa è l’America di domani. Ma non è un’analisi: come ci ha abituati, Van Sant non si lascia andare a considerazioni personali, la sua è una fotografia di quella che oggi è la normalità. Una normalità nella quale si muove Alex, e muovendosi finisce per trovarsene al di fuori.
“Nessuno è pronto per Paranoid Park”, gli dice Jared per convincerlo ad andarci: la verità è che nessuno è pronto per quello che sta per accadere ad Alex, e tutto il film fa perno sulle sue azioni e sul suo racconto degli eventi. Il racconto (Alex ne sta scrivendo una lettera) è frammentato, interrotto e ripreso nel corso della giornata (o delle giornate?); allo stesso modo Van Sant gioca sui diversi piani temporali, il ‘prima’, il ‘dopo’, il racconto del ‘prima’, quello del ‘dopo’. E ovviamente il ‘durante’, nel quale Alex provoca la morte di una guardia.
Nei primi minuti, oltre ai salti temporali, si diverte a giocare con le riprese, con una definizione da super8, cambi di fuoco e lunghe sequenze di skaters all’opera. Se l’operazione regge, senza dare troppo fastidio, ne va riconosciuto il merito a Christopher Doyle, abituato a lavorare con registi più ‘lineari’ in quanto al modo di girare (Wong Kar-wai più che M. Night Shyamalan).
Gabe Nevins, l’interprete di Alex, è perfetto nel mantenere costantemente un’espressione ai limiti della vacuità, così come sono rappresentati tutti gli altri coetanei. Che sia voluta o meno, in questo tipo d’interpretazione c’è l’unico messaggio che Van Sant sembra voler dare: il resto, la storia, le azioni e le reazioni di Alex, le sue decisioni, tutto quanto, è semplicemente inutile. E in questa inutilità “Paranoid Park” trova la sua giustificazione, il suo senso, un quadro con una cornice chiuso in una stanza buia: chi vuole entrare e accendere la luce, può ammirare il quadro, quindi spegnere e uscire. |