Fatih Akin attraversa ancora una volta il ponte tra la Germania e la Turchia per raccontarci le sue storie dure, ma piene di emozione. Storie d’amore tragicamente concluse, che già conoscevamo. Ma anche storie di scoperte, o forse sarebbe meglio dire di riscoperte del proprio passato, delle proprie radici. Nejat, il professore universitario, integrato perfettamente nella terra di immigrazione, torna a Istanbul e poi va ancora più in là, fin sulla costa del mar Nero, dove le contadine bruciate dal sole e con il fazzoletto legato in testa lavorano nei campi usando soltanto una falce. Susanne, perfetta madre di famiglia borghese, va suo malgrado a Istanbul e ritrova il suo passato dimenticato di giovane libera e un po’ ribelle in viaggio per l’India. Entrambi trovano il loro modo per riunirsi alle persone loro care, per ricostruire un rapporto che sembrava irrimediabilmente perduto. Nejat si ritrova, nella bella scena finale (forse la migliore del film), ad aspettare il padre Ali di ritorno dalla pesca; dopo averlo rinnegato come assassino, lo saprà accettare spirito arcaico e rude quale egli è in fondo sempre stato. Susanne, ripercorrendo le tappe del tragico viaggio della figlia Lotte in Turchia, la ritrova dentro di sé, giovinezza perduta o rinnegata, e fuori di sé in Ayten, amore di Lotte e quindi modo di tenerla in vita attraverso il ricordo. Ayten, per parte sua, non trova né potrebbe trovare la madre naturale: ma trova una madre d’elezione, l’unica in grado di salvarla dal destino di autodistruzione cui essa si era condannata.
Akin cerca di tenere insieme al meglio questa trama di eventi, fitta e pregna di significato, ma vi riesce purtroppo solo in parte. La struttura narrativa incrociata, ispirata esplicitamente a Inarritu, è alquanto forzata, come appiccicata a forza sullo svolgimento lineare del racconto, e anche nei momenti più emozionanti (le due bare, una che entra e l’altra che esce dalla stiva dell’aereo, in un assurdo gioco del destino) risulta un po’ stonata. Probabilmente al di là della intenzioni del regista, il meccanismo dei rimandi fa emergere un concetto di inesorabile casualità dell’esistenza che diventa quasi teleologico dogmatismo. Ugualmente poco felice è l’inserimento del tema politico: quasi come essere catapultati inaspettatamente negli anni settanta, tra cortei, complotti tra i banchi universitari e pistole pericolosamente strumentalizzate per l’improbabile lotta armata. Difficile dare la colpa solo all’Akin sceneggiatore; le carenze coinvolgono anche la regia, che non sviluppa adeguatamente un buon materiale di partenza. Il film è salvato sul piano artistico dalla bellezza della fotografia (oltre al finale, ci sono il viaggio in macchina di Nejat e quello di Ayten, finalmente libera, sul battello che attraversa il Bosforo), e soprattutto dalla indubbia partecipazione emotiva di Akin. L’autore si emoziona per primo raccontando le sue storie, e il pubblico se ne accorge, partecipando con lui.
Premiato per la miglior sceneggiatura al Festival di Cannes 2007. |