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Beij, un arabo sessantenne, vive vicino Marsiglia, e lavora nel cantiere navale del porto ma alla sua età non regge più la fatica di un lavoro così pesante. Deve però resistere perché, anche se ha divorziato da parecchi anni, vuole rimanere vicino alla sua ex moglie e ai figli, nonostante le tensioni passate. Le difficoltà finanziarie lo fanno sentire inutile, e per allontanare la sensazione di fallimento che sente, si rifugia in un sogno che potrebbe trasformarsi in realtà. Vorrebbe aprire un ristorante a conduzione familiare per dedicarsi a un'attività meno faticosa della sua e più redditizia per tutti. Anche i suoi parenti pian piano si fanno coinvolgere e uniscono le loro forze per un progetto che dà a tutti la speranza in una vita diversa. |
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Non voglio andarmene senza prima aver lasciato qualcosa ai miei figli
Buio, silenzio. Luce, applausi. La 64° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sembra decisa dal pubblico, che tributa a “La Graine et le Mulet” (poi tradotto, per una volta correttamente, “Cous Cous”) oltre dieci minuti di applausi. Fino al momento in cui Zhang Yimou, presidente di giuria, scopre le sue carte, è il film di Kechiche il Leone d’oro annunciato. Annunciato, ma mai concretizzato. Kechiche non entra nel merito del valore artistico di “Lussuria” quando ammette la sua delusione per la sconfitta di un film che riteneva “così giusto per Venezia, rendeva omaggio al cinema italiano, era veramente una dichiarazione d’amore che avrebbe meritato, in quel contesto, quel premio”. Se ne va con il Premio Speciale della Giuria, il Premio Marcello Mastroianni per l’attrice rivelazione Hafsia Herzi e molta malinconia: “Venezia nel mio immaginario è collegata a qualcosa di sacro, magico”, dice riferendosi al successo di “Tutta colpa di Voltaire”.
L’omaggio al cinema italiano non è solo nelle parole del giovane regista franco-tunisino: l’impronta del neorealismo è palpabile, tanto nella rappresentazione dei personaggi quanto nei pochi ma importantissimi squarci sulla realtà che li circonda. E’ un neorealismo di stomaco, però, indissolubilmente legato a un sentimento privato e intenso; il film è dedicato al padre, sul quale (e per il quale) ha disegnato il protagonista, prima di mettere il progetto in un cassetto per dieci anni e dedicarsi alle sue prime due regie.
Habib Boufares, che interpreta il sessantenne Slimane, è stato scelto seguendo questo spunto iniziale: non è un attore, ma un compagno di lavoro del padre di Kechiche (nel frattempo scomparso) in un cantiere navale. Uomo di poche parole – ma non quando si tratta di rivendicare i suoi anni di lavoro, non riconosciuti perché mai dichiarati dai precedenti proprietari del cantiere – Slimane soffre per non essere riuscito a lasciare qualcosa di concreto ai suoi figli, avuti dal matrimonio con Souad, né alla sua nuova compagna e alla figliastra Rym. La sensazione di fallimento, di inutilità da un lato, un sogno dall’altro: mettere su un ristorante di cous cous a conduzione famigliare. Alla fine, la notte in cui questo sogno vede una possibile materializzazione, Slimane viene fatto sparire dal centro dell’azione, gestita invece dalle due famiglie insieme. Si può considerare un risultato?
La scelta di inserire scene molto lunghe (lo sfogo della cognata russa, l’inseguimento del motorino e la danza del ventre, queste ultime due montate in parallelo) nel finale di un film già lungo di suo è coraggiosa, aumenta l’intensità ma oggettivamente stanca gli spettatori – chissà che non si sentano come gli ospiti al ristorante, che aspettano per più di un’ora il cous cous; forse la lunga danza del ventre è un risarcimento anche per loro...
Interessante la scelta del finale, aperto se non addirittura fuorviante; ciò che importa è che il messaggio dell’autore arrivi nitidamente. “Cous Cous” è la rappresentazione di uno spaccato di mondo: lo spaccato è fatto di solidarietà familiare, il cui punto di partenza non è una comunità ma un contesto sociale; il mondo è fatto diversamente, un mondo nel quale le idee, le capacità, la volontà, il coraggio, non bastano per scrivere un finale disneyano. |
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6,5
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Per me non è il migliore di Kechiche, ma comunque piacevole seducente. Però sento che ha perso la libertà di La Schivata. Ennesima bellezza femminile scoperta dal regista.
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5,5
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6
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7
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penalizzato dal ritmo troppo lento, che tuttavia aiuta a riflettere su una varietà di temi davvero notevole, che anche se solo accennati non sono mai buttati lì a caso. notevole poi il cast
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6,5
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Film ricco ed estenuante. Bravissimi gli attori, ma a metà qualcosa si inceppa e il film comincia a ripiegare su se stesso. Non mi ha convinto del tutto, ma la parte finale è notevole.
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