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Dall'omonimo romanzo di Danielle Girard. Danielle, 47 anni, parigina è una donna ricoverata in una clinica privata dopo il terzo tentativo di suicidio. Autocondannatasi a un silenzio inviolabile, chiusa in un mondo senza più reazioni, bisogni, futuro, viene convinta dalla giovane psichiatra che l'ha in cura e che non vuole rassegnarsi a perderla, a tentare almeno di mettere per iscritto alcuni pensieri. |
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Un’ora e mezza di sofferenza: L’amour caché” non è un film che possa passare indolore. Isabelle Huppert, bravissima, per carità, monopolizza la macchina da presa stropicciandosi le mani, guardando con aria impaurita, dando sfogo ai suoi problemi (in una scena dal forte sapore kubrickiano) su quintali di fogli. A leggerli, unica interlocutrice della donna, ricoverata dopo il terzo tentativo di suicidio, è la psicologa della casa di cura.
Danielle ha una nemica: sua figlia. “Sono la madre di Sophie”, così si presenta. L’indifferenza, la mancanza d’amore nel rapporto tra Danielle e Sophie è ciò che distrugge la donna. Non si tratta di dare o di ricevere, e nemmeno di vivere ognuno la propria vita: un’azione ha la sua spiegazione nel dolore che può provocare nell’altra.
Quanto di tutto questo sia vero, quanto un’esagerazione della donna in preda ai sensi di colpa, Alessandro Capone lo lascia nel dubbio dei pochi, contraddittori incontri tra le tre donne (la madre, la figlia, la psicologa: mai tutte e tre insieme). Le immagini sono fortemente simboliche, a tratti sembra quasi che l’idea del simbolo sia più importante del suo significato; si susseguono frasi altisonanti, allo scopo di conferire al film una profondità che nella storia non riesce ad avere: “ci sono solo figli; è solo una scia di sangue e di irresponsabilità”. La pazza (Danielle) non sta bene, ma la psicologa, e soprattutto la figlia, non sono certo in una situazione migliore tanto da riuscire ad aiutarla.
Verso la fine si scade anche nel banale, con le solite accuse egocentriche (“non può avermi fatto questo”, parlando della morte altrui) e un finale che vuole forzatamente aprire ad una domani di speranza. Il film si sarebbe dovuto concludere (almeno) un minuto prima, sull’odio dichiarato dalla madre sulla tomba di “quell’essere che ho espulso dal mio ventre 23 anni fa”.
Per chi ha lo stomaco forte e un bel po’ di pazienza. |