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Mike Enslin, un tempo brillante scrittore con alle spalle un ottimo romanzo d'esordio, non è mai riuscito a superare il trauma della morte della figlioletta e ha perso scrittura e moglie dopo il dramma. Da tempo accumula la stesura di innumerevoli libri fra il cinico e il sensazionalistico in cui racconta la sua permanenza notturna in vari luoghi (cimiteri, camere d'albergo, case, castelli...) famosi per la presenza di fantasmi, poltergeist e fenomeni soprannaturali. La serie di lunghe notti solitarie alla ricerca di fantasmi inesistenti, tuttavia, è destinata a interrompersi quando Mike entra nella stanza 1408 del famigerato Dolphin Hotel. Sfidando gli avvertimenti del direttore dell'albergo, decide di pernottare proprio nella stanza che tutti considerano infestata, nella speranza che possa essere l'inizio di un nuovo bestseller. |
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Presentato come un horror, “1408” non è propriamente tale: la definizione di thriller paranormale, anche se meno accattivante del più generico horror, gli calza a pennello.
Un uomo, solo, rinchiuso in un posto senza vie di fuga, alle prese con i propri incubi: questo in una riga appena il sunto del film di Mikael Håfström, quarantasettenne regista svedese candidato all’Oscar per il miglior film straniero con “Evil” (Ondskan, 2003) e sbarcato in America con “Derailed” due anni fa.
“1408” ci presenta Mike Elsin, uno scrittore dedito a serie di bassa qualità – del tipo ‘10 cimiteri pieni di fantasmi’, ‘10 case infestate da spiriti’, fino all’ultimo, in lavorazione, ‘10 camere d’albergo’, sempre a proposito di fantasmi: non vuole alimentare leggende, ma smentirle; non sono le vendite la chiave del suo lavoro, ma la motivazione emerge nel corso del film.
La parte introduttiva non è particolarmente brillante, ma ha il merito di essere relativamente veloce: dopo pochi minuti il ‘ghostwriter’ è alle prese con il direttore del Dolphin Hotel di New York, che insiste perché Mike receda dal proposito di pernottare nella stanza 1408. Prima ancora che Mike vi entri è già tutto chiaro: in un secolo scarso di vita quella stanza ha visto morire, in svariati modi, 56 persone. Adesso lo spettatore non ha che da aspettare che Mike si trovi a tu per tu con questa famigerata camera.
Non sfuggiranno le somiglianze con “Shining”, punto di riferimento non solo cinematografico del genere in questione: nessuno stupore, entrambi i film sono tratti da romanzi di Stephen King – questa volta la sceneggiatura è opera di Matt Greenberg con la collaborazione di Scott Alexander e Larry Karaszewski, già autori per Miloš Forman (“Larry Flint” e “Man on the moon”) e per Tim Burton (“Ed Wood”).
Il più meritevole – attori a parte – è comunque il regista: senza ricorrere a troppi effetti speciali, Håfström riesce a non far pesare oltre un’ora di film costruita attorno a un solo attore chiuso in una stanza. Le escursioni fuori dalla finestra o per il condotto dell’aria non sono vere evasioni, ma portano Mike alle prese con una prigione più angusta della stanza d’albergo; una boccata d’aria è costituita soltanto dai pochi secondi passati in chat con la moglie, per il resto Mike non ha contatti con l’esterno finché non lo decide la stanza stessa… La natura della stanza è il punto cruciale del film, quello che fa di un mezzo horror un film significativo: Mike non combatte un’entità paranormale, ma è alle prese con se stesso, con il suo scetticismo sull’aldilà. Buona o meno che sia, è comunque una motivazione forte, se tra i pochi flashback dei momenti passati con la famiglia c’è proprio una discussione sulla speranza della vita dopo la morte.
Sul più bello, come quasi sempre accade, il film non trova una conclusione all’altezza, problema del quale lo stesso regista sembra essere cosciente: il finale del libro non era soddisfacente – per lo schermo, s’intende – e ne sono stati girati molti prima di scegliere; un incentivo a comprare il dvd e gustarseli tutti quanti…
Pienamente all’altezza è invece John Cusack, già interprete di ottimi film ma per la prima volta sbattuto da solo in una stanza per (quasi) tutta la durata del film. Impresa ardua, ma affrontata con bravura. Ingannevole – e sminuente per Cusack – la locandina col suo volto e quello di Samuel L. Jackson: la parte dell’attore di Spike Lee e Quentin Tarantino (e innumerevoli altri registi) è breve e racchiusa principalmente in una sola sequenza, per quanto importante, e nel libro di Stephen King era ancor più marginale. Buona scelta quella di dargli maggiore spazio, forse si poteva fare ancora qualcosa di più.
Per gli amanti del brivido: il più terrorizzato in sala rimarrà sicuramente l’uomo sullo schermo, ma in tempi in cui il cinema di genere partorisce quasi sempre topolini vale la pena di vederlo. |
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