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A metà del ‘800, negli ultimi anni della dominazione borbonica in Sicilia e alla vigilia della nascita dello stato italiano, le esequie della principessa Teresa sono l'occasione per riunire i membri della famiglia Uzeda, discendenti dei Vicerè di Spagna.
Attraverso gli occhi di un ragazzino, Consalvo, l'ultimo erede degli Uzeda, si svelano i misteri, gli intrighi, le complesse personalità degli appartenenti alla famiglia, tutti dominati da grandi ossessioni e passioni.
In lotta l'uno con l'altro, gli Uzeda si combattono per l'eredità della principessa defunta e per i desideri contrastanti di ognuno di loro e il piccolo Consalvo cresce così in una famiglia in perpetua guerra. |
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Di questi tempi tutto cambia velocemente…
La frase citata la scrive Federico De Roberto nel 1894; insieme, possiamo citare “destra e sinistra non significano più niente” o il lungo comizio (molto più breve nel film) che Consalvo tiene con la ferma intenzione di accaparrarsi i voti di tutte le classi sociali. Siamo di fronte a un romanzo per certi versi illuminato, nel quale si colgono lucidamente i cambiamenti di una società da poco uscita da una rivoluzione ma si comprende, ancor più nel profondo, la staticità di questa stessa società appena sotto la superficie cangiante. Quando Benedetto Croce stronca ‘I vicerè’ parlando di un’opera ‘che non illumina l’intelletto’ sbaglia, ma la sua linea sarà adottata per decenni condannando il romanzo di De Roberto a una magra fortuna e a una sconfitta totale nel confronti del successivo ‘Il gattopardo’, che pure deve molto al “nostro” – fluidità narrativa a parte.
Ci tiene Roberto Faenza a riabilitare il romanzo dal quale ha appena tratto il suo nuovo film; paradossalmente, anche il regista torinese ha la propria Croce (pardon): il film è ancora in fase di montaggio quando viene visto dai responsabili della sezione Première della seconda Festa Internazionale del Cinema di Roma che non trovano di meglio, a kermesse ampiamente conclusa, che giustificare il mancato inserimento del film nel programma della Festa per il suo basso valore artistico.
E’ una critica ‘acritica’, perché il film, ultimato, è decisamente di buon livello; mai pesante, se “I viceré” mantiene una certa freddezza è perché non crea, ma illustra la situazione di un Paese che sostanzialmente in un secolo e mezzo di storia non è migliorato. Il centro di tutto (del film, di Catania, della società) è la famiglia: gli Uzeda, discendenti dei Viceré di Spagna, assistono ma sopravvivono al crollo del potere borbonico nel Regno delle due Sicilie. Da un lato la tradizione (la chiesa e le sue degenerazioni quali la superstizione) non viene cancellata – non lo è ancora nemmeno oggi – e dall’altro la società vive i suoi più grandi tumulti: in mezzo stanno gli Uzeda.
La figura principale è quella del principe Giacomo (Lando Buzzanca, man mano che passa il tempo si scopre che i sottovalutati attori degli anni ’70 erano davvero bravi), tirannico, odiato ma temuto capofamiglia; la narrazione però segue il figlio Consalvo, nella sorprendentemente piacevole interpretazione di Alessandro Preziosi. Padre e figlio si collocano ai poli opposti, il primo radicato in un passato religioso e dispotico, il secondo proiettato in un futuro liberale e tendente all’amoralità; si odiano. A sviluppare socialmente quello che potrebbe sembrare un contrasto generazionale ci pensano due figure antitetiche, il libertino Don Blasco (Pep Cruz) e l’incompiuta sorella di Consalvo, Teresa (Cristiana Capotondi).
Un film corale su un passato che ci riguarda da così vicino che è ancora presente. |
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