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Mumia Abu Jamal è un giornalista ex membro delle Pantere Nere, condannato a morte nel 1982 per il presunto omicidio di un agente di polizia. William Francome ha 24 anni ed è un giovane ragazzo inglese simpatico ed educato e con una spiccata coscienza politica, nato esattamente lo stesso giorno in cui fu commesso il crimine. Mumia Abu sostiene di essere innocente ma viene condannato a morte e, nonostante il sostegno di organizzazioni umanitarie e figure carismatiche, da allora attende la sua esecuzione. Will ha la consapevolezza che in ogni minuto della sua vita privilegiata, un uomo di colore, segregato in isolamento, ha atteso di morire. Un uomo che proclama la sua innocenza. |
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Mumia Abu Jamal è negro, povero ed accusato di aver ucciso un poliziotto. Bianco.
Con delle credenziali così, in America si è spacciati, nel vero senso della parola. Perché Mumia Abu Jamal è l’America e la sua rappresentazione, con tutte le sue contraddizioni.
“Un impero che pensa di essere padrone del mondo e di poter dire a tutti cosa fare”, e al tempo stesso un paese che fomenta la legge del taglione.
Un paese che vuole esportare la democrazia (con le bombe) per il mondo, per esempio nel medio oriente, e che permette -come nel medio oriente- di condannare a morte anche i minorenni.
Un paese orgoglioso del suo meltin pot dove però se sei negro hai quattro volte in più la possibilità di essere impiccato, asfissiato, fucilato o carbonizzato su una sedia elettrica rispetto ai bianchi, per lo stesso tipo di delitto, ovviamente.
Il punto di partenza del film è la consapevolezza da parte del 25enne William Francome, nato lo stesso giorno del delitto di cui è accusato Mumia, che per ogni secondo della sua fortunata vita c’è un uomo che nel braccio della morte aspetta di morire. Eppure il documentario di Evans, che segue da vicino l’inchiesta del giovane William, più che di Mumia ci parla proprio dell’America, e di come dal 1981 ad oggi poco o niente sia cambiato: Mumia è “semplicemente” il simbolo più eloquente di un’ingiustizia sociale neanche troppo mascherata, la sua battaglia è quella di tante altre persone senza voce, di quei morti viventi senza alcun futuro o speranza.
In questo caso invece la speranza c’è, ed è la voglia è di smuovere le coscienze, tuttavia il rischio è che pure questo sforzo caschi nel grande inganno americano: la possibilità di denunciare e criticare un sistema che però così facendo riesce sempre a preservarsi.
Dal punto di vista tecnico il limite del film risiede nell’eccessiva abbondanza di interviste a persone diverse -artisti, politici o testimoni- che finiscono col rendere il documentario troppo piatto e confuso, nonostante le ingiustizie di questa storia, abbinate a molte scene drammatiche, scuotano anche il più insensibile spettatore.
Patrocinato da Amnesty International, In prison my whole life esce proprio nell’anno in cui ci sarà un nuovo appello del caso Mumia. L’augurio è che riesca a sensibilizzare ulteriormente il pubblico italiano per far sì che venga definitivamente abolita la pena di morte nel mondo. |