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Cinecittà è un pezzo di Roma a ridosso del Grande Raccordo Anulare. Accanto a uno dei primi centri commerciali della capitale quattromila lavoratori precari attraversano ventiquattro ore al giorno il portone di un’anonima palazzina, una fabbrica di occupazione a tempo determinato che sembra un condominio qualunque. Tra loro alcuni operatori telefonici hanno organizzato scioperi, manifestazioni, scritto un giornale e presentato un esposto all’Ufficio Provinciale del Lavoro. Si sono autorganizzati, hanno rischiato e sono stati licenziati. Qualcuno poteva salvarsi e accettare un lavoro pagato 550 euro al mese, ma "noi non siamo mica il Titanic - mi dicono - non affonderemo cantando".
Parole sante! Rispondo io. |
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Ascanio Celestini va di moda. Negli ultimi anni ha conosciuto un successo travolgente, specialmente a Roma, e la riprova di questo è che il suo curioso pizzetto ora lo si vede anche in tv, per esempio a "Parla con me", programma cult per quegli intellettuali di sinistra che frequentano salotti-ravanello: rossi fuori e bianchi dentro (come il divano della Dandini). Eppure, il successo di Celestini non è figlio della notorietà televisiva, e neanche dell’intenso lavoro di ricerca sul campo che precede ogni suo spettacolo teatrale; il successo di Celestini risiede soprattutto nella maniacale attenzione che lui ha nell’usare le parole.
Perché le parole sono importanti: il lavoro di un ragazzo o padre di famiglia che lavora in un call-center non è flessibile. E’ precario.
Un contratto a progetto (quello che scade, come il formaggio dopo pochi mesi) non rinnovato significa licenziamento, non che il “progetto” sia ultimato.
E se è vero che i contratti veri, quelli di una volta, quelli che ti permettevano di campare e fare due conti sul futuro, diminuiscono di giorno in giorno, allora significa che "in Italia forse la bomba non è ancora scoppiata, ma tra un po’ ci sarà un bel botto".
Il secondo documentario di Celestini indaga ancora una volta il mondo del lavoro/sfruttamento, e l’analisi che ne esce è sincera e preoccupante. Il film non cerca immagini, magari dello squallido palazzone alla periferia di Roma che ospita l’Atesia -il più grande call-center in Italia, ottavo al mondo- ma parole. Parole dei tanti intervistati che sono dirette, mai provocatorie, quasi sempre disilluse. L’immagine, quella di un Italia disastrata, viene da sé. Maurizio, uno degli ragazzi, dice che “là dentro in azienda sembra il Titanic, la nave che affonda mentre i passeggeri ballano e cantano”. Parole sante, risponde Celestini.
Eppure il messaggio che si vuole dare è quello che in un Paese dove destra e sinistra risuonano come vocaboli vuoti, e i sindacati hanno perso la fiducia della gente perché probabilmente anche loro vivono in una realtà diversa da quella che pensano di rappresentare, la soluzione è l’autorganizzazione. Smuovere le coscienze iniziando dall’informazione, la prima delle quattro tappe di chi vuole cambiare realmente questo Paese, ovvero far sapere, sapere, saper fare e fare. |