Un mondo magico nel quale risolvere i problemi che il mondo reale pone e fa sembrare inaffrontabili.
“Spiderwick – le cronache” non ci prova nemmeno a rivolgersi ad un pubblico capace di memoria cinematografica, puntando ad un target ristretto ma dalle ampie prospettive d’incasso al botteghino. Lo fa sulla scia di decine di predecessori, saccheggiando qua e là i vari “Neverland” (il bambino protagonista è lo stesso, Freddie Highmore, qui nel doppio ruolo di gemello chiuso e curioso / saccente e obbediente), “Cronache di Narnia”, “Storia Infinita”, con una spruzzata di atmosfera noir da fratelli Grimm che regge solo fino alla prima apparizione dei ‘mostri’. D’altro canto il messaggio, pedagogico ma non originale, è stato ampiamente trattato, spesso con successo: e quando in ballo ci sono produzioni multimilionarie è difficile che qualcuno voglia prendersi il rischio dell’originalità.
Un’enorme casa in mezzo alla campagna, una famiglia con un conflitto in atto e un libro nascosto, ritrovato per caso, sono gli ingredienti dai quali prende il via il film di Mark Waters. L’unica scelta che si presenta è quella tra la ‘porta dimensionale’ e il ‘rivelamento di una realtà occulta’, e la scelta cade su questa seconda opzione.
Il resto degli sforzi si concentra nel tentativo di disegnare creature magiche che non sappiano esageratamente di ‘già visto’, inserendo a intervalli più o meno regolari scene suggestive di rapidi scontri tra umani e mostri (le più riuscite sono le prime, con i ragazzi che non possono vedere i mostri che li stanno attaccando).
I due intermezzi ‘floreali’, tra fate e silfidi, - necessari al ritmo del film – deludono, e l’epilogo che li unisce è quanto di peggio si potesse scegliere per il finale. Ma è una conditio sine qua non che la conclusione dei film di questo tipo debba tenere in considerazione tutti gli esseri umani comparsi in precedenza (non è un caso che il padre dei ragazzi non compaia mai se non come interlocutore telefonico, salvandoci così da un finale ancora più assurdo).
In conclusione, il film è ben fatto e il lavoro al computer è ottimo, permettento la naturale interazione non solo tra attori e creature finte, ma soprattutto quella tra i due personaggi interpretati da Highmore. Ma rimane, a monte, una debolezza di intenti troppo accentuata per essere dimenticata. |