In piena pokermania, “21” ci ricorda che ai tavoli verdi di Las Vegas non si gioca soltanto con 52 carte. Guidati da un professore in cerca di matematica, cinque studenti del M.I.T. si siedono ai tavoli del blackjack sempre al momento giusto, quando il mazzo è gonfio e battere il banco è statisticamente più probabile. E’, di fondo, la vecchia idea che ha sempre affascinato i profani e scottato darte dei giocatori convinti che “il banco vince sempre” sia solo un detto: contare le carte. Contare le carte non è vietato, ma nessuno, tranne pochi temerari, lo fa; i motivi sono due: è molto difficile tenere il conto, e il casinò non gradisce che lo si faccia.
Per ovviare al primo problema, ci vengono presentati cinque brillantissimi studenti di matematica, per i quali il conto delle carte non rappresenta un problema; sotto il coordinamento del professor Micky Rosa (Kevin Spacey) la squadra si divide i compiti, tra contatori e puntatori, il tutto condito da una serie di segnali e frasi in codice per comunicare.
Il secondo problema, purtroppo, non è risolvibile: appena i cinque iniziano a vincere grosse cifre con frequenza sospetta, sulle loro tracce si mette Cole Williams (Laurence Fishburne), responsabile dell’organizzazione dei casinò.
In un mondo dove la parola “morale” non ha passaporto, è interessante la scelta di non metterla sul piano dei buoni e cattivi (come invece fa “Ocean’s eleven”, al quale “21” si rifà ampiamente, in particolare per la figura di Jill – Kate Bosworth), ma di far emergere pian piano il lato negativo del/dei protagonisti e, contemporaneamente, le ragioni del loro antagonista.
L’altro film saccheggiato è “Will Hunting – Genio ribelle”, ormai punto di riferimento inamovibile per il cinema americano degli ultimi anni. “21” ha però il pregio di mantenere lo stesso tono nella narrazione per tutte le due ore di durata del film, con una regia appariscente e dinamica, e senza sottrarre allo spettatore per più di qualche minuto l’adrenalina del tavolo da gioco.
Jim Sturgess, buon protagonista dell’ottimo “Across The Universe”, è apprezzabile anche in questa pellicola, ma non può sfuggire un modo di affrontare il personaggio un po’ troppo simile al precedente: d’accordo che in entrambe le storie si trova catapultato in un mondo nel quale inizia a muoversi da estraneo, ma nella seconda parte, quando dovrebbe diventare più incisivo, la differenza si nota appena: è ora che mostri qualcosa di più dell’aria sognante, che ben si addice al suo viso pulito. Spacey e Fishburne fanno il compitino, gli altri ragazzi rimangono ancorati agli stereotipi di ruoli che si consumano interamente nella comparsa in scena; è un peccato, perché, nel suo genere, poteva uscire fuori un ottimo film. Rimane invece un film godibile, che non lascerà il segno a differenza dei modelli a cui si è ispirato. |
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