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Brasile, 1970. Il mondo è in subbuglio per la guerra in Vietnam e la crescente ondata dittatoriale nei paesi del Sud America, ma per il dodicenne Mauro l'unica preoccupazione è la nazionale di calcio brasiliana che sta per affrontare la finale dei mondiali di calcio in Messico contro l'Italia che le varrebbe la terza stella sulla maglia. Tuttavia, gli avvenimenti del suo paese influenzeranno prepotentemente la vita del ragazzo, costretto a lasciare la tranquilla cittadina di Minas Gerais per trasferirsi nel quartiere Bom Retiro di San Paolo, a casa di suo nonno, dopo che i suoi genitori, militanti di sinistra, abbandonano il Brasile per motivi politici... |
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Brasile, 1970. E’ l’anno della conquista definitiva della Coppa Rimet, terzo titolo mondiale per un paese che vive il calcio come nessun altro (decine di suicidi, oltre a numerosi incidenti, dopo la finale persa in casa con l’Uruguay nel ’50). Senza questo evento, il 1970 sarebbe semplicemente uno degli oltre venti anni di dittatura militare vissuti dopo il colpo di stato del ’64.
“L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza” segue alcuni mesi della vita del giovane Mauro, lasciato senza molte spiegazioni dai genitori di fronte alla porta di casa del nonno, nel quartiere di Bom Retiro (San Paolo), con la vaga promessa di ritornare in tempo per guardare insieme i mondiali. Mauro (interpretato dal dodicenne Michel Joelsas) non varca la porta di casa, viene ‘raccolto’ dal vicino (l’ebreo Shlomo, sovrintendente della sinagoga locale, interpretato da Germano Haiut), passa le giornate chiuso in casa da solo o per strada, in compagnia di Hanna (Daniela Piepszyk, di un anno più giovane), finché il campionato tanto atteso non ha inizio. Dopo i primi novanta minuti, passati accanto al telefono in attesa del ritorno dei genitori, Mauro inizia a godersi il suo mondiale al bar con gli altri personaggi del quartiere, con i quali ha interagito nei precedenti mesi di solitudine.
Cao Hamburger ha il merito di non rendere pesante un film incentrato sulla figura di un ragazzo ‘abbandonato’ dai genitori, costretti a fuggire perché comunisti e oppositori del regime. Inoltre Mauro è sempre in scena, e non era facile evitare una deriva sentimentalista. Felice anche la scelta di non calcare né il lato politico, né l’interazione con comunità diverse, aspetto lasciato al solo rapporto tra il bambino e Shlomo.
Gli spettatori italiani sono doppiamente coinvolti: per loro il mondiale del ’70 non è quello della terza vittoria brasiliana, ma è il mondiale di Italia-Germania 4-3 (semifinale) e di una finale giocata senza più energie; fa sorridere, pensando a quello che è oggi – soprattutto a Roma – il mondo delle trasmissioni radiofoniche dedicate al calcio, scoprire come anche quarant’anni fa, dall’altro capo del mondo, le cose non andassero diversamente, con mesi di dibattiti sulla possibile convivenza in campo tra Pelè e Tostão. Per inciso, il piccolo Mauro la pensava come l’allenatore Mario Zagallo, e la storia ha dato loro ragione.
Presentato in concorso al 57° Festival di Berlino. |