Più che una versione attualizzata del dramma di Oscar Wilde, “Chiamami Salomè” è una fedele trasposizione in un mondo parallelo, reale ma inverosimile, grottesco, artificiosamente cinematografico.
L’Erode di Claudio Sestieri è un boss del napoletano, che riceve in un locale di sua proprietà – The Last Emperor… – un gruppo di malavitosi in trasferta, venuti da Las Vegas ad omaggiare, ma soprattutto a controllare, il padrino nostrano. Tra baccanali ed ostentazione di sfarzo e cattivo gusto, Erode si becca con la moglie Erodiade, infastidita dagli insulti del prigioniero-profeta Giovanni e dalle occhiate del marito per la figlia di primo letto, Salomè.
Come va a finire non è una sorpresa: la ragazzina usa il suo fascino come un arma contro tutti quanti, ma ai suoi ricatti (“Salomè, tu hai visto troppi film splatter” le dice il padre) tutti cedono, incluso Erode, che da vincente (”Solo le donne sanno cosa significa stare con un vincente”, il commento di Erodiade sulla sua unione col fratello del primo marito) si ritrova abbandonato, tradito dalla propria spavalderia e dalla necessità di mantenere una parola data frettolosamente.
Nelle sue breve apparizione, il personaggio di Giovanni, le cui parole echeggiano per tutto il film, è quello che colpisce di più: un prigioniero rabbioso, quanto di più lontano dall’immaginario collettivo per un profeta. Elio Germano approfitta dei pochi minuti in cui rimane in scena per offrire una caratterizzazione violenta del personaggio più forte di tutta la storia, cui fa da contraltare una Salomè (Carolina Felline) troppo legata alla propria apatia, anche nei momenti clou della “danza dei sette veli” o del monologo con la testa di Giovanni.
“Chiamami Salomè” ha i pregi e i difetti del testo wildiano, regia e attori aggiungono poco, la scenografia toglie molto; è un prodotto riuscito a metà, bene nella sua scelta di fedeltà al modello, così così nelle idee più originali. Non è – né vuole essere – un film commerciale, e per un pubblico di nicchia potrebbe anche, col tempo, diventare un cult: né bello né brutto, a metà strada tra trash e letteratura. |