La prima regia di Jieho Lee segue fedele le linee di un noto proverbio cinese che ricama la vita attono a quattro capisaldi, inevitabili per ognuno di noi: felicità, piacere, tristezza e amore.
L'Occidente prova a interpretare l'Oriente, i suoi saggi pilastri, le sue rigide riflessioni, il tempo in cui si scandisce la vita. Inevitabile fallire proprio dove la profondità cerca di apparire dissolta, dove lascia intuire dietro immagini un'atmosfera che in fondo non gli appartiene assolutamente. Mentre il cast, ricchissimo ormai quasi per moda, si muove nervoso, alternando egregi momenti di lucidità a imbarazzanti vuoti di senso.
Andy Garcia continua a fare il duro, Brendan Fraser è spaesato, la Gellar strizza l'occhio al box office ed Emile Hirsch, dopo Sean Penn, è diventato infallibile.
Discorso a parte su Forest Whitaker che non ha più bisogno di complimenti, anche se troppo spesso e troppo da vicino, proprio il suo ruolo, ricorda gli sguardi di “Crash – contatto fisico”, ma qui è il film a creare un ricamo ambiguo con l'illustre predecessore firmato da Paul Haggis; lo ricorda nello stile, nel girato, nei sorrisi e nel dolore, insomma lo ricorda decisamente troppo.
Quattro chiavi emozionali che ruotano attorno a se stesse, legate da una fotografia cupa e dimessa e forse dal recondido desiderio di cercare un senso, di sentirsi disperatamente vivi anche quando a un passo dalla fine, forse per questo il finale cerca uno spiraglio di luce, tende verso il lieto, allegerisce quello che fino a qul momento era stato il suo lato migliore, si spoglia del suo alone di buio ma perde la sua più intima identità.
Non rimarrà nella storia, ma per essere un esordio merita un convinto rispetto. |