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Victor Mancini, uno studente di medicina fallito, ha architettato un sistema piuttosto fantasioso per pagare le cure ospedaliere della sua anziana madre. Tutte le sere Victor si reca in un ristorante diverso, e mentre sta cenando finge di soffocare. Puntualmente qualcuno fa dei tentativi per salvarlo, e immancabilmente diventa quasi un padre adottivo, che periodicamente gli invia del denaro. Quasi tutti i giorni Victor riceve soldi da persone che gli sono grate per aver dato un senso alle proprie vite. |
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Il peggiore dei pompini sarà sempre meglio della più profumata delle rose… del più fantastico dei tramonti. Delle risate dei bambini.
Clark Gregg prende il libro di Chuck Palahniuk, lo semplifica ma non lo edulcora. Davanti agli occhi dello spettatore la storia prende forma così come Palahniuk la racconta, con le stesse espressioni, gli stessi flashback, lo stesso ordine degli eventi. Trasporre un libro quale “Soffocare” per un cineasta deve essere uno dei momenti più divertenti della propria carriera, conscio di ottenere il massimo rimanendo semplicemente fedele allo stile del testo; Gregg ovviamente approfitta di questa possibilità per tre quarti del film, con il rimpianto di non poter girare per intero gli “elenchi” che Victor Mancini fa durante il romanzo, limitandosi invece a qualche esempio. L’unica scelta che compie, una scelta peraltro obbligata, è nel togliere ogni possibile ambiguità ai flashback dovendoli rappresentare visivamente.
Nel finale Gregg, o forse la produzione, riporta il libro entro canoni prettamente cinematografici: in sostanza prende il libro, strappa l’ultima pagina degli ultimi tre o quattro capitoli e la riscrive come si aspetterebbe uno spettatore-tipo di una qualsiasi commedia. Ma non è questa la scelta che pesa nel giudizio del film, in fondo nessuno è obbligato a rimanere fedele al testo originale (altrimenti esisterebbero solo soggettisti e non sceneggiatori). Dove il film manca è nel ritmo, nonostante lo stile cerchi di avvicinarsi quanto più possibile a quello dello scrittore. Così alla fine in sala si ride spesso, ma di un riso simile a quello di un amico cui leggiamo qualche riga del libro che ci ha colpito, senza che possa immergersi nell’atmosfera dell’opera.
Forse in mano a David Fincher, che di Palahniuk già stravolse il finale di “Fight club”, il film avrebbe avuto il ritmo necessario per lasciarsi godere così come fa il libro. Nelle mani di Clark Gregg rimane una pellicola divertente, abbastanza originale, un buon esempio di trasposizione specialmente nella ricostruzione di Colonial Dunsboro. Un’ottima occasione sfruttata solo in parte. |
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