Haile Gerima ripercorre in “Teza” la vita di un giovane etiope cresciuto tra Europa ed Africa nella seconda metà del secolo scorso.
Attraverso lo sguardo di Anderber, rileggiamo particolari momenti storici di entrambi i continenti, dalle rivoluzioni culturali in occidente alla difficile storia etiope dopo la dominazione italiana, durante i regimi del negus prima e di Menghitsu poi. Ci scontriamo allora con dure realtà su entrambi i lati del Mediterraneo da una prospettiva in un certo senso sempre esterna, emigrante nord africano in Germania ed intellettuale occidentalizzato in patria. Una condizione di incomprensione e grande confusione interna.
Ed è forte nell'opera la componente autobiografica, da cui ovviamente prende le mosse la storia per regalarci la realtà di una generazione cresciuta con il mito dell'occidente, eredità difficile di un passato coloniale, immediatamente seguito dal senso di debito intellettuale verso la propria terra, madre a cui si ritorna, ma mai del tutto, per cercare di riportare qualcosa ed in cui non ci si riconosce più, se mai ci si è riconosciuti.
Per far ciò, il regista gioca con diversi piani temporali. Si parte dall'oggi in cui Anderber, ormai maturo, si rifugia nel villaggio natio per allontanarsi dalla follia del mondo alla ricerca di ciò che realmente è. Col tempo l'introspezione porta ad affrontare il conflitto fra ideale e reale e, poco a poco, come se mentre il protagonista riacquisisce memoria di se lo facessimo anche noi, il passato si intreccia con il presente prendendo spazio nella narrazione. Passato che aiuta ad interpretare il presente, a capire come si è arrivati dove si è. E questo è un messaggio chiaro di Gerima: il recupero delle tradizioni come DNA di un uno e della società di cui fa parte.
Le suggestioni in tal senso partono dal titolo stesso, teza è la rugiada, le goccioline che di prima mattina ci bagnano quando passiamo nell'erba alta. E questo ricordo d'infanzia con le altre significanti immagini attentamente scelte, così come le sonorità oniriche che le accompagnano (una stupenda colonna sonora con brani tribali rivisitati appositamente), sono strumento per evocare quelle sensazioni che sono bagaglio culturale innato di un popolo, del suo popolo.
Ne è morale la necessità di recuperare le tradizioni perse, non attraverso una meccanica ripetizione, sterile quanto la totale ed innaturale negazione, ma attraverso la riconciliarsi attiva e critica da cui costruire il proprio futuro.
A far da contrappunto all'illusione di visioni, incubi e ricordi, lo spiazzante realismo che il regista riesce a raggiungere in alcune sequenze.
Definito il “Novecento” africano, “Teza”, premiato fra l'altro a Venezia e Cartagine, seppur non raggiunga l'opera di Bertolucci nell'effettivo minutaggio, si dilunga forse un po' troppo utilizzando dei tempi di narrazione a cui (purtroppo) non siamo più abituati. |