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Esce venerdì 17 Aprile in oltre 250 copie "Questione di cuore", prodotto da Rai Cinema e Cattleya e distribuito dalla 01.
Francesca Archibugi torna alla regia a poco più di due anni da "Lezioni di volo"; nei panni dei protagonisti, due uomini che si conoscono in ospedale subito dopo un infarto, troviamo Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart.
Accanto a loro Micaela Ramazzotti, Francesca Inaudi, Chiara Noschese e tante star che si prestano a una comparsata o un semplice cameo. |
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Spesso i registi hanno più simpatia nel raccontare, tra due mondi diversi, quello più “lontano”. E’ così tra i mondi di Angelo e di Alberto? |
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Non penso ci sia un personaggio buono e uno cattivo, lo sono entrambi nello stesso momento; io li amo entrambi, con la stessa intensità, quindi mi risulterebbe molto strano che uno potesse essere considerato più “accarezzato” dell’altro. Credo che questo sia un sentimento che al limite possano avere gli attori, ognuno può pensare che l’altro sia trattato meglio, però non è così. |
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Quali sono state le emozioni nel lavorare a questa storia con Albanese e Rossi Stuart? |
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Io ero emozionata perché era una storia un po’ diversa, è stato laborioso arrivare a focalizzare la scelta su Kim e Antonio, sulla carta non erano così evidenti; i registi sono tutti megalomani, io pensavo che loro due ancora non avessero trovato il loro ruolo vero, e che aspettassero me... Credevo che dovessero entrambi sprigionare una potenza comica; lo stesso Kim ha accettato il ruolo quando glie l’ho mostrato in chiave comica.
Ero emozionata di avere a che fare con due persone che innanzi tutto sono due registi, quindi eravamo sempre tre registi sul set e bisognava maneggiarli con cura. Inoltre credo che se un regista ci sa fare un po’ con gli attori non li diriga, ma si faccia dirigere da loro. |
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A proposito del romanzo di Umberto Contarello: |
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Io ho letto il romanzo in bozze, con Umberto siamo amici da 25 anni. L’ho trovato un classico. In Italia ci sono bravi sceneggiatori, in questo momento i migliori sono i registi. Umberto è un grandissimo soggettista: secondo me il cinema se non ha il propulsore di idee e di storie muore, e purtroppo si adoperano poco i soggettisti. |
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C’è un doppio dolore, oltre a quello fisico dei protagonisti c’è quello personale di uno scollamento con la realtà, un sentimento di abbandono... |
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Non si può fare un personaggio come Alberto senza aderire a qualcosa di profondo. Abbiamo cercato di non essere didascalici o pedanti, di esprimere un sentimento e non un’opinione, non dobbiamo mai parlare noi per bocca dei personaggi. |
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Come è nata l’idea del cameo di Carlo Verdone, con questa interpretazione ironica e realistica di se stesso? |
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Avevamo desiderio che arrivasse una persona al capezzale per cui sembrasse chiaro che Alberto era una persona importante, cioè “doveva mannà affanculo” qualcuno di molto importante. Sarebbe da domandare a Carlo perché sia venuto così generosamente a farci questo regalo. Io sono andata a casa sua un pomeriggio per scrivere questa scenetta basandoci su come lui è; quando si lavora in modo intenso e proficuo, e ci si diverte molto, ci impegniamo sempre tantissimo. Carlo veniva a fare una piccola cosa, di pochi minuti, ed è commovente che si sia impegnato tantissimo. |
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A proposito del cameo, sembra che quando ci sia bisogno d’aiuto da parte del mondo del cinema questo non venga. Si è tolta un sassolino dalla scarpa? Non è contemplata l’amicizia nel mondo del cinema? |
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Come ho già detto non si parla mai per bocca dei personaggi, non c’è nient’altro che un sentimento di Alberto in quel momento, probabilmente falso. Lui si sente che non ha nessuno, mentre probabilmente non è così; è un momento particolare, ma rientrerà nella sua vita, dirà che non è poi tanto male.
Non penso assolutamente che nel cinema non ci sia amicizia, anzi: io ho cominciato molto giovane e i più grandi amici li ho in questo mondo; ho amicizie vere e profondissime, ad esempio Umberto non sapete nemmeno come mi tratta, io accetto tutto perché l’amicizia si basa su uno scambio profondo, ti confronti anche sul tuo lavoro con chi fa il tuo lavoro. |
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Perché avete scelto il Pigneto, un’ambientazione che rimanda a un cinema del passato? |
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Il cinema italiano per molti anni ha lavorato in pochi chilometri quadrati, quei quartieri erano l’immaginario dell’Italia; dopo allora stop, non è mai più stato mostrato cosa fosse diventato quel mondo tra la Casilina e la Prenestina. Mentre scrivevo la sceneggiatura, per cercare io per prima di capire, ho cominciato a girare con la macchina fotografica al collo, per vedere insieme ai luoghi le persone. Ho avuto la sensazione che solo quello raccontasse tanto di quello che eravamo diventati, che fosse sufficiente per tracciare un ponte tra quell’Italia e la nostra Italia, siccome volevo fare un film sull’Italia – cerco sempre di fare dei film occultamente politici – con tutto quello che è il Pigneto, un posto miserissimo che è diventato “fichetto”, un riflesso del nostro Paese. |
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Dopo il suo film sul terremoto in Umbria, come ha vissuto questo nuovo dramma? |
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Sono rimasta molto colpita, come tutti voi. La prima considerazione che posso fare da persona un po’ più edotta dei fatti, sapendo benissimo dove passa la faglia, è che gli appalti si fanno al ribasso, un criterio che fa sì che costruiamo brutto e insicuro. Il brutto e l’insicuro ci stanno soffocando, bisogna trovare un sistema per costruire più bello e più sano anche perché la quantità di risorse che già dicono che non ci sono vengono spese sempre più in emergenze. All’epoca di “Domani, essendo molto pignola, sono diventata quasi una sismologa: mi sono ritornate su a distanza di dieci anni un’amarezza e una rabbia. |
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