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Esce l’8 maggio il film vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino 2009, “Il canto di Paloma”, della giovane regista italo-peruviana Claudia Llosa. Il film, distribuito con il patrocinio di Amnesty International, vede Fausta, nata durante i vent’anni del conflitto interno che ha insanguinato il Perù fino al 2000, mostrare, come ha commentato il portavoce di Amnesty Riccardo Noury, “la sua forza e la sua tenacia nel cercare di superare, tra grandi difficoltà e in ambienti spesso ostili, le conseguenze più dure delle violazioni dei diritti umani”. |
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Si parla della “sindrome della teta asustada”, da cui deriva il titolo originale del film. Qual è il significato? C’è nella cultura peruviana una leggenda legata alla possibilità che il corpo della madre possa tramandare alla figlia determinate sensazioni e sofferenze? |
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Ci sono psicologi e psicoanalisti che affrontano la questione in termini di malattia, altri pensano che sia solo legata al mito. Io sono dell’opinione che sia da considerare come una vera e propria patologia. E’ un tema complesso come tutto ciò che entra nella sfera del mito. Il popolo del Perù utilizza questi mezzi per trovare una propria consapevolezza. |
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Oltre alla sfera del mito il film mostra anche il Perù attraverso la raffigurazione di una realtà variegata e affascinante, sconosciuta alla nostra cultura. Quanto c’è di reale in questa raffigurazione? |
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Spesso mi hanno rivolto questa domanda, soprattutto in riferimento alle riprese dei matrimoni, che in Perù a volte vengono celebrati tutti insieme, proprio come si vede nel film. Non ho lavorato di fantasia, però mi sono scontrata con la difficoltà di tessere con armonia tutti gli elementi di realtà e finzione, di realtà e mito, e di amalgamarli all’interno della pellicola. |
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Il lavoro sulle musiche ti ha coinvolto personalmente. Quanto le canzoni, che nel film sono invenzione della ragazza, sono anche opera tua? |
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Non ho lavorato direttamente sulla musica, ma sui testi di quelle canzoni. Con la protagonista abbiamo lavorato sulla ricerca di una tonalità di voce che potesse al meglio caratterizzare il personaggio. |
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A cosa è legata la scelta di un’attrice così bella nel ruolo della protagonista? |
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E’ vero che la bellezza di Magaly Solier salta agli occhi da subito, ma non è solo una bellezza fisica. Lei riesce ad usare il suo corpo per dire tutto quello che non esprime con le parole. Sebbene caratterialmente nella vita Magaly sia molto diversa dal personaggio di Fausta, che interpreta nella pellicola, la sua bellezza la aiuta a raccontare. Essendo trattato poi nel film un tema così duro, in questo modo viene reso più chiaro e immediato, addolcendolo anche sotto certi aspetti. |
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Nel film c’è una grande dominante femminile. Nel Perù di oggi percepisce questo? |
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E’ vero che c’è una grande dominante femminile ma l’intenzione è quella di mostrare anche la capacità maschile di capire le donne. Non credo che in un Paese ci debba essere una dominante di genere per rispecchiarne la personalità: è nella diversità che c’è la forza e la diversità è un processo fondamentale nella storia. |
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Cosa pensa del titolo italiano? |
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Mi piace moltissimo. Ha recuperato il significato della pellicola, cogliendo un altro punto di vista: il canto della libertà. |
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Come è nata l’idea del finale? |
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Il finale è sempre stato in dubbio riguardo la via da intraprendere. Ho insistito molto che in chiusura ci fosse la scena con la consegna del fiore della patata. Volevo rendere così un’immagine di una sessualità che non fosse più vista solo come oltraggio e violazione. L’idea di base su cui abbiamo costruito la scena era di mostrare la possibilità che ci poteva essere un modo per riprendersi dalle ferite interne. Volevo che il film rispondesse in maniera positiva, ma non volevo partire all’inizio con un’idea fissa in mente: l’obiettivo era di giungerci in modo naturale, come è necessario, nel film come nella vita. |
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