Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Intervista: Elia Suleiman

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Venerdì 4 giugno esce nelle sale italiane "Il tempo che ci rimane", strano film semiautobiografico di Elia Suleiman: diviso in quattro episodi, "Il tempo che ci rimane" è ispirato ai diari privati del padre del regista e alla corrispondenza tra sua madre e i parenti lontani. In questo film Suleiman ha voluto ritrarre la vita quotidiana dei palestinesi che decisero di restare in Israele, stranieri nella loro stessa Patria. La Bim, distribuzione italiana, ha diffuso alla stampa una breve conversazione con l'autore.
Intervista Elia Suleiman: Domanda 1"Il tempo che ci rimane" è più politico degli altri suoi film?
I miei film si ispirano alla mia vita quotidiana. Quando vivi in una zona sensibile come il mio paese, la politica fa semplicemente parte della vita. Si dà il caso che la Palestina subisca un eccesso di esposizione mediatica, col conseguente risultato di lasciare campo libero agli ideologi sia a sinistra, sia a destra. Ho sentito che la mia sfida era quella di sottrarmi a questo approccio semplicistico e di fare film in cui non ci fosse nessuna lezione di storia da impartire. Mi sono focalizzato su momenti di intimità familiare, con la speranza di non ottenere altro che il piacere del pubblico e una certa verità nel modo di girare. Se raggiunge questo scopo, il film diventa universale e il mondo stesso diventa Palestina. Se questo dovesse suscitare un interesse per la dimensione politica, lo spettatore potrà andare in libreria o in biblioteca – invece di guardare la Tv – e scoprire altro ancora sui personaggi che lo hanno commosso.
Non c’è dubbio che la poesia sia universale, Ma oggi un altro fenomeno rafforza questo senso di familiarità con il mondo, seppure in modo illusorio e perverso: la globalizzazione. Nonostante questo, spero che l’approccio scelto per il film possa incoraggiare qualcuno a smetterla di pensare alla Palestina in modo feticistico e contribuire a scrollarmi di dosso l’etichetta di “regista palestinese”.
Intervista Elia Suleiman: Domanda 2Si tratta di una maturazione politica?
Un cambiamento c’è sicuramente stato. Sono in grado di guardarmi con un certo distacco, adesso. Ho notato che col passare del tempo e con l’aumentare dell’esperienza puoi andare oltre te stesso. A volte si prendono determinate posizioni per puro interesse intellettuale. Ma poi quando davvero condividi un’esperienza di vita, una volta che entri nel territorio morale di altri, con la loro sofferenza, indipendentemente dal sesso e dalla nazionalità, ti rendi conto che si prova piacere non solo nell’essere sé stessi, ma anche nell’entrare nella pelle di altri, qualunque sia il colore di questa pelle. Per essere libero devi essere un outsider. Dovunque ti trovi, è questa condizione a renderti libero di comprendere e sentire gli altri, ed è in quel momento che la tua poesia diventa autentica e sincera.
Quando rivedo gli altri miei film mi capita di notare dei passaggi in cui non mi riconosco del tutto, segnali di una presa di distanza che attribuisco non a una mancanza di sincerità, ma semplicemente alla riluttanza ad avventurarmi in un terreno emotivo che in quel momento non sembrava – per me – transitabile. Ne “Il tempo che resta” mi sono messo davvero a nudo, sono andato più a fondo possibile nella mia vita privata, intima, con tutta la gioia e il dolore che questo comporta. Credo che sia un film non da capire ma da sentire, un film da cui bisogna farsi coinvolgere emotivamente.
Intervista Elia Suleiman: Domanda 3E' sorprendente l’immagine che dà del rapporto con i suoi genitori.
Ho avuto un rapporto molto particolare con i miei genitori. Da piccolo sono stato un po’ un ragazzo di strada. Poi ho lasciato il paese e quando sono tornato il rapporto che ho sviluppato con i miei genitori era più simile a un rapporto di amicizia. Io e mio padre andavamo insieme a passeggiare, a pesca: facevamo cose di ogni genere. E' stato lui a farmi conoscere la musica che ho usato nel film. Lui amava quelle canzoni, mentre io ero un fanatico dei Led Zeppelin all’epoca, facevo il batterista in una rock band, e la musica che ascoltava lui non mi piaceva. Ma a poco a poco me l’ha fatta apprezzare, regalandomi nastri e comprandomi libri sulla musica araba. È stato lo stesso con i vestiti. Se gli piaceva qualcosa di mio se lo metteva. Quando è morto ho aperto il suo guardaroba e ho visto che era pieno di miei vestiti. E io devo ammettere che molti dei vestiti che porto erano suoi.
Intervista Elia Suleiman: Domanda 4La sceneggiatura si ispira direttamente alla vita della sua famiglia?
Quando la storia si svolge in un’epoca che ho vissuto, scrivo quello che vedo, quello di cui conosco gli odori e i sapori, poi lo adatto ai miei gusti estetici. Per il 1948, ho dovuto affidarmi ai ricordi di mio padre. In un certo senso lui è diventato il mio cosceneggiatore. Quando si è ammalato gli ho chiesto di tenere un diario che io ho poi adattato come avrei fatto con un romanzo. Era molto importante che mi desse descrizioni precise. Avevo paura di cadere in una forma narrativa classica, ma alla fine sono rimasto fedele al mio metodo nel dare vita ai ricordi di mio padre sullo schermo. Il mio intento era dichiaratamente quello di parlare della sua giovinezza, ma questa è anche un punto di partenza cifrato per il film, che corrisponde a un “big bang” storico.
Intervista Elia Suleiman: Domanda 5I silenzi sono una delle caratteristiche salienti del suo stile.
Trovo che il silenzio sia molto cinematografico. Il silenzio è una cosa meravigliosamente sovversiva. Tutti i governi lo odiano perché è un’arma di resistenza. Quando leggi una poesia, per esempio, il respiro gioca un ruolo fondamentale. Molte persone si sentono intimidite dal silenzio, perché le destabilizza, li spossessa della loro identità. Prenda i film commerciali, con una narrazione classica: uno prega che arrivi un momento di silenzio, e quando il film è finito ti accorgi che non è stato detto niente; allo spettatore non è stato dato niente su cui riflettere. Il silenzio ti fa mettere in discussione le cose.
Intervista Elia Suleiman: Domanda 6Il silenzio è il respiro del cinema?
E' di più. E' un momento di condivisione, e di partecipazione. Lo spettatore ha il privilegio di tradurre questo silenzio in parole, di prendere parte alla creazione dell’immagine. E' un momento di tenebra rischiarato solo da una sigaretta accesa e dalla presenza di un caro amico. E' la vista di un sorriso che ti fa capire di aver amato la vita. E' il ritorno naturale e intuitivo alle origini del cinema. Si potrebbe provare a definirlo in molti modi, ma questo significherebbe fare un grande torto al silenzio.
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Il tempo che ci rimane
di Elia Suleiman
Drammatico, 2009
105 min.
Film diretti:
2012  7 days in Havana
2009  Il tempo che ci rimane
Festival di Cannes 2009
62ª Edizione
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