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Esce nelle sale italiane venerdì 1 ottobre “La pecora nera”, uno dei quattro film italiani presentati in concorso all'ultimo Festival di Venezia. Per Ascanio Celestini, che nel 2005 ha realizzato uno spettacolo teatrale e l'anno dopo un libro con lo stesso titolo, si tratta del primo film di fiction da regista. Alla presentazione del film alla Mostra e in un breve intervento diffuso dalla Bim Distribuzione, Celestini parla della mancanza di speranza quando si è identificati solo con una parte di sé, e i tentativi di "uscire fuori" risultano vani. |
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Per il tuo primo film di fiction parti dall'esperienza di un libro e un lavoro teatrale: |
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In realtà io non sono partito da un libro o da uno spettacolo, ma parto da un lavoro di ricerca che è iniziato molto prima del debutto del 2005 o del libro del 2006; è originato da un lavoro che ho iniziato nel 2002 facendo interviste in ospedali psichiatrici o ex ospedali psichiatrici, era un lavoro che ho portato avanti dal 2002 al 2005, per cui diciamo che il film raccoglie un’esperienza di otto anni. |
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Ci racconti il tuo protagonista? |
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La pecora nera è la storia di Nicola: Nicola è matto perché non ha speranze, la speranza di essere qualche altra cosa. Quando una persona finisce in ospedale con una gamba rotta, in quell’ospedale diventa esclusivamente un osso rotto; poi per fortuna esci dall’ospedale e torni ad essere tutte le altre cose che eri prima. Invece dal manicomio in linea di massima non si esce, non si usciva prima della legge 180 e neanche oggi, che i manicomi ci stanno, oltre agli ospedali psichiatrici giudiziari ci stanno le cliniche, le spbc... Nel manicomio sei esclusivamente una parte del tuo comportamento; tu vorresti non essere soltanto matto, ma alla fine lo sei. Perciò la mancanza di speranza del personaggio di Nicola è non aver speranza di essere altro se non il proprio disagio. Poi chiaramente nel corso della storia il tentativo è di uscire fuori da questo disagio, è come se cercasse attraverso gli altri personaggi, veri o finti, che incontra nel corso del film, che lo accompagnano, di tirarsi fuori da questa situazione. E’ un film complesso, non è un’alternativa a una pizza e una birra, è un film “in salita”, però è una salita che possono fare tutti. |
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Come hai lavorato per rappresentarlo? |
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L’individuo, il personaggio è solo perché è sempre chiuso da qualche parte; l’unico momento vero d’apertura del film è un momento in cui il personaggio, da bambino, all’inizio degli anni ’70, viene portato al mare dalla nonna, ed è l’unico vero campo lungo, lunghissimo, dove il bambino corre verso l’acqua. Però anche in quel momento c’è qualcuno che lo ferma, e non farà questo bagno in mare. Io ho tentato un po’ di raccontare sempre questa storia, del tentativo del personaggio di uscire fuori: dalla famiglia, dalla scuola, dall’istituto, e il personaggio è matto proprio perché non esce più e alla fine non è più possibile stare dentro né stare fuori. |
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Il lavoro di troupe è diverso da quello per un documentario. Come è stato? |
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Il lavoro che devono fare gli attori, gli operatori, il direttore della fotografia – che é anche il primo operatore, Daniele Ciprì – il lavoro sul suono, il lavoro sul montaggio: tutti in qualche maniera devono entrare in questa testa che è il film, devono guardare attraverso il film. Poi che questa testa in buona parte coincide con la mia testa, questo dipende dal fatto che sono stato io a lavorarci per molti anni, poi pian piano sono entrati gli sceneggiatori e via via tutti gli altri. Per entrare nel film dovevamo entrare in questa testa, una testa che pensa, e quella voce off che inizialmente sembra solo accompagnare alcune fasi, pian piano penso si capisca che è il pensiero che sta in quella testa. |
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