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Il primo film in concorso del quinto Festival Internazionale del Film di Roma è "Last Night", prima regia della giovane sceneggiatrice americana di origini iraniane Massy Tadjedin, accompagnata al festival dalle protagoniste Keira Knightley ed Eva Mendes, e da Giullaume Canet che partecipa alla manifestazione anche anche investe di regista. Tra David Lean e Stanley Kubrick, Massy Tadjedin racconta l'approccio al film, la sua amicizia con Keira, la scelta di New York e quella degli altri attori. |
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"Last Night" è un film sul tradimento, consumato o no: hai voluto rimarcare la differenza tra queste due tipologie? |
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Io penso che dipenda in larga misura dalla definizione di infedeltà; fisicamente lui attraversa la linea di demarcazione, ma l’interrogativo del film è: lei ha fatto qualcosa che consideriamo infedeltà, come quella di lui?
Nel film cerchiamo di non dare una risposta, però presentiamo una situazione comparabile per i due personaggi. |
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Come hai scelto gli attori? |
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Keira e io ci siamo conosciute la prima volta in “The Jacket” del quale ho scritto la sceneggiatura, un thriller psicologico. Per il mio primo film lavorare con qualcuno che era una cara amica mi ha dato una grande sicurezza. Quando ho scritto questa storia aveva solo 20 anni, pensavo che fosse troppo giovane, ma c’è voluto poco per farla sembrare più vecchia; all’inizio lei non voleva fare un film, per due anni le ho parlato del progetto ma non voleva lavorare. Ho faticato un po’ per convincerla, ma ci sono riuscita. Poi abbiamo cominciato a fare il cast insieme: avevamo bisogno di un tipo di femminilità molto diverso.
Ho conosciuto Sam, avrebbe potuto fare qualsiasi parte. Con Eva è stato amore a prima vista, abbiamo preso un caffè per tre ore; con lei è stato straordinario. Giullaume l’avevo conosciuto a Los Angeles, l’ho visto sullo schermo e mi è rimasto in testa. |
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Nella maggior parte del tempo siamo dentro alla stessa scena. Tutto si basa sul volto, sul dialogo: come lo avete preparato? E poi, perché è ambientato a Ney Work? |
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Abbiamo fatto tantissime prove, molta della descrizione dei personaggi doveva essere resa attraverso l’espressione, i dettagli dei primi piani. Era importante girare così per catturare quanto più possibile, gli attori recitano con ogni parte del loro corpo.
Quanto alla città, originariamente avevamo pensato a Los Angeles, ma quando abbiamo fatto il cast uno veniva dall’Inghilterra, uno dall’Australia, uno dalla Francia, una cubana-americana: New York mi sembrava una location molto credibile quando metti insieme quattro persone diverse che vengono da quattro parti del mondo diverse. E poi il film è una storia d’amore e New York è una città molto romantica, e per quanto sia grandissima è così piccola, nel senso che è possibile girare l’angolo e sbattere addosso a qualcuno, e c’è un’energia a New York che volevo cogliere. |
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L’incipit ricorda "Eyes Wide Shut": ci sono implicazioni, o è un omaggio? |
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“Eyes Wide Shut” è uno dei miei film preferiti, sono una grande fan di Kubrick: non è stata una scelta cosciente, ma ora che ci rifletto su, effettivamente si stanno preparando per andare a una festa, però ci sono tante differenze, un bambino, un ambiente diverso. Forse il peso di descrivere l’aspetto familiare, il peso di un matrimonio, devi dare un’idea molto rapida quando cerchi di comunicare l’agio o il disagio dei rapporti tra i due, vedere come si muovono in casa propria, come si avvicinano alla festa: è un modo per far vedere che è una coppia di persone che stanno insieme da molto tempo, che si conoscono bene, un tentativo di descrivere la quotidianità della vita. |
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Ha pensato a "Breve incontro" di David Lean? |
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Sì, è stata un’ispirazione per il film. Quando si fa qualcosa in un periodo breve ma molto intenso è come una specie di storia d’amore, è un ‘breve incontro’ tra artisti, un’esperienza profonda. E’ per questo che da molti film nascono amicizie, perché si lavora in circostanze di grande intensità e ci vuole una fiducia enorme per ottenere questo risultato in così poco tempo. |
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