Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Intervista: Paolo Sorrentino

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Presentato in concorso a Cannes, dove tre anni prima venne premiato per "Il divo" dal presidente Sean Penn, esce venerdì 14 ottobre distribuito da Lucky Red il primo film americano di Paolo Sorrentino: “This must be the place”. Protagonista proprio Sean Penn nei panni di Cheyenne, una ex rockstar che torna in America dopo 30 anni per mettersi sulle tracce di un criminale nazista. Dal loro rapporto parte il racconto di Sorrentino nell'intervista seguente diffusa dall'ufficio stampa del film.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 1Come hai conosciuto Sean Penn e come è nata l’idea di questo film?
Ho conosciuto Sean Penn nel 2008 durante la serata finale del Festival di Cannes, l’anno in cui lui era presidente di giuria e io ho vinto il premio della giuria per “Il divo”. In quell’occasione aveva espresso giudizi estremamente lusinghieri sul mio film. La cosa mi sembrò un avvenimento sufficientemente eccezionale da spingermi a pensare, utopisticamente, ad un film con lui. Inaspettatamente, come in un autentico sogno americano, l’utopia è diventata realtà.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 2Da cosa hanno avuto origine i due temi principali del film: il ritratto di una rock star depressa e la caccia ad un vecchio nazista?
Per quanto mi riguarda, ogni film deve essere una caccia smodata all’ignoto e al mistero. Non tanto per trovare una risposta, quanto per continuare a tenere viva la domanda.
Durante la genesi di questo film, una delle tante domande che non mi abbandonavano mai riguardava la vita segreta, misteriosa che, da qualche parte nel mondo, gli ex criminali nazisti sono costretti a condurre. Uomini, ormai, con le armoniose fattezze di anziani innocui e bonari, in realtà preceduti dall’innominabile crimine per eccellenza: lo sterminio di un popolo. Dunque, un rovesciamento dell’immaginario.
Per scovare uno di questi uomini ci voleva una caccia e per avere una caccia ci voleva un cacciatore. Qui entra in gioco un elemento ulteriore del film: una mia necessità istintiva di innescare nel dramma una componente ironica. Allora, per raggiungere questo obiettivo, insieme a Umberto Contarello abbiamo cominciato a scartare le ipotesi del cacciatore “istituzionale” di nazisti e pian piano siamo approdati ad un opposto assoluto del detective: una ex rockstar lenta e pigra, sufficientemente annoiata e chiusa in un proprio mondo autoreferenziale da essere così, apparentemente, la figura più lontana dalla ricerca insensata, in giro per gli Stati Uniti, di un criminale nazista, ormai probabilmente morto. Lo sfondo del dramma dei drammi: l’olocausto, e il suo avvicinamento a un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, mi è sembrata una combinazione sufficientemente “pericolosa”, da poter dare vita ad una storia interessante.
Perché solo dentro il pericolo del fallimento, credo che il racconto possa autenticamente vibrare.
Spero di aver scansato il fallimento.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 3Perché sentivi il bisogno di raccontare una storia sull’Olocausto?
E' sproporzionato affermare che ho fatto un film sull’Olocausto. Il film è ambientato ai nostri giorni. Affonda le mani in quell’immane tragedia solo per squarci, per timide intuizioni o deduzioni. Però è vero che volevo che lo sfondo dell’Olocausto angustiasse l’oggi del racconto di questo film.
Ho cercato di farlo da un’angolazione diversa e, spero, inedita.
Il film si concentra poi, in prevalenza, sebbene con un pudore dettato dalla mia biografia, su un altro pilastro centrale: l’assenza, che possiede per definizione sempre una presenza, del rapporto tra padre e figlio.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 4Parlaci del personaggio di Cheyenne. Chi è?
Cheyenne è infantile, ma non capriccioso. Come molti adulti rimasti ancorati all’infanzia ha il dono di preservare solo gli aspetti limpidi, commoventi, sopportabili dei bambini.
Il suo ritiro prematuro dalle scene, a causa di un trauma, lo costringe a condurre una vita che lui non riesce a mettere ben a fuoco. Un trascinarsi, che oscilla tra la noia e il leggero stato depressivo. Galleggia. E sovente gli uomini che galleggiano trovano nell’ironia e nella leggerezza l’unica possibilità decente di stare al mondo. Questo atteggiamento ha un preciso riscontro nella percezione che gli altri hanno di lui: Cheyenne è un autentico, involontario portatore di gioia. E quando nel film Cheyenne afferma in modo candido e sfrontato che “la vita è piena di belle cose” si è portati quasi a credergli. Perché è un bambino che parla e, da qualche parte, è rassicurante pensare che i bambini abbiano sempre ragione.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 5Come mai questo nome, Cheyenne?
E’ un nome da rock star, da divo del rock. Cercavo un nome che fosse credibile. Abbiamo pensato a uno dei nomi più azzeccati della storia del rock: Siouxsie and the Banshees e abbiamo vigliaccamente mutuato il nome in Cheyenne and the Fellows.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 6Qual è stata la reazione di Sean Penn alla sceneggiatura?
Ho mandato la sceneggiatura a Sean Penn con la ferma convinzione di essere destinato ad aspettare mesi prima di ottenere una risposta. Voci che non so se corrispondono a verità dicevano che Sean riceve qualcosa come quaranta sceneggiature al mese. Un secondo dopo aver spedito il copione la mia mente già lavorava alacremente a una qualsiasi altra idea di film che avesse un minimo di concretezza, perché francamente mi sembrava impossibile che questa mia bizzarra idea di fare un film indipendente in America con un fresco vincitore di Oscar potesse avere un suo realismo.
Invece dopo 24 ore ho trovato un messaggio in segreteria di Sean Penn. Naturalmente, come avrebbe fatto chiunque altro, ho subito pensato che si trattasse di una burla. Il mio amico produttore Nicola Giuliano è piuttosto abile sia negli scherzi che nelle imitazioni. Mi sbagliavo. Allora, nel cuore della notte, ho parlato al telefono con Sean Penn, che mi ha detto che gli era piaciuto molto il copione ed esprimeva divertito solo preoccupazione per una scena in cui doveva ballare. Mi è sembrato un problema ampiamente risolvibile. Un mese dopo, insieme al mio sceneggiatore e al mio produttore, siamo andati a trovare Sean a San Francisco. Abbiamo trascorso una serata meravigliosa dove, per incursioni improvvise, lui mi lasciava intravedere le sue intenzioni sul personaggio. Confermandomi quello che sospettavo: i grandi attori ne sanno sul personaggio sempre molto di più del regista e dello sceneggiatore.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 7Qual è stato l’apporto di Sean al film?
Sean Penn è l’attore ideale per un regista. Perché è estremamente rispettoso delle idee del regista e non solo ha il dono di migliorarle, ma possiede anche il talento sconfinato che gli permette di raggiungere un’autenticità e una profondità sul personaggio che francamente a me sarebbero state sconosciute anche se ci avessi riflettuto una vita intera.
Con Luca Bigazzi, il direttore della fotografia, eravamo strabiliati non solo dalla bravura, che avevamo sì messo in conto, sebbene non fino a queste vette, ma anche dalla precisione di tutto. Io e Luca, prima di cominciare un’inquadratura, avevamo sempre tante cose da dirgli, per poi renderci conto, pochi secondi dopo, che non c’era niente da dire, perché aveva capito tutto in anticipo e da solo, gesti, sguardi, precisione dei movimenti, la capacità immediata di facilitare certe inevitabili difficoltà tecniche.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 8Parlaci del look piuttosto estremo di Cheyenne: il rossetto, il trucco, i capelli, l’abbigliamento tutto in nero...
Il look è ispirato a quello di Robert Smith, il leader dei Cure. Da ragazzo avevo visto i Cure in concerto diverse volte. Poi, tre anni fa, ci sono tornato e ho visto Robert Smith, ormai cinquantenne, con lo stesso, immutabile look di quando aveva vent’anni. E’ stato “impressionante” nel senso positivo della parola.
Vedendolo da vicino, mentre attraversava il backstage, ho compreso quanto può essere bella e commovente la contraddizione nell’essere umano. Un cinquantenne immerso in un look che si addice per definizione ad un adolescente. E non c’era niente di patetico. C’era solo una cosa che al cinema come nella vita può assumere i contorni estatici della meraviglia: l’eccezionale, inteso come eccezione unica e inebriante. Mesi dopo ho avuto modo di rivivere la stessa eccezionale esperienza quando in una caldissima giornata di luglio, a New York, abbiamo fatto la prima prova di trucco e costumi con Sean Penn. È stato un piccolo miracolo che accadeva sotto i miei occhi, assistere in silenzio alla progressione inesorabile dell’attore Sean Penn, che un passo alla volta, attraverso il rossetto, il rimmel sugli occhi e poi indossando i costumi e infine muovendosi, in un modo naturale e allo stesso tempo diverso da come si muove lui, si trasfigurava in un’altra cosa, diametralmente opposta, che era il personaggio di Cheyenne.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 9Parlaci del rapporto tra Jane e Cheyenne:
Devo confessare che, per questo sottotesto, ho rubacchiato qua e là dal reale rapporto che intrattengo con mia moglie. Un rapporto dove l’astrattezza stralunata dell’uomo è fortunosamente compensata dalla concretezza inesorabile della donna che consente che le cose vadano avanti senza traumi e senza inutili tragedie. Questa contrapposizione tra astrattezza e concretezza ho cercato, insieme ad Umberto Contarello, di farla emergere dentro una cornice ironica. Con Sean Penn e Frances McDormand la dimensione giocosa del rapporto è stata assicurata in fretta anche in virtù di una loro naturale attitudine a far ridere.
Sono stato molto fortunato che Frances McDormand abbia accettato di interpretare il personaggio di Jane. Per convincerla, le avevo scritto una lettera in cui le dicevo che se lei avesse rifiutato quel ruolo avrei semplicemente modificato la sceneggiatura rendendo Cheyenne scapolo o vedovo. Ed era la verità. Non riuscivo a pensare a nessun altra attrice che non fosse lei. Quando l’ho incontrata ho trovato conferma all’idea che mi ero fatto di lei, una donna dall’intelligenza rapidissima, coniugata con un’ironia imprevedibile e inesauribile.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 10Come mai hai deciso di girare a Dublino?
Molto semplicemente, Dublino possiede bellezza e malinconia. Due sentimenti che possono convivere magnificamente in un racconto cinematografico.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 11E perché hai girato negli Stati Uniti?
Perché volevo misurarmi in maniera spudorata e spericolata con tutti i luoghi iconografici del cinema che mi hanno fatto amare questo lavoro sin da quando ero ragazzino: New York, il deserto americano, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi.
I luoghi americani sono un sogno e, quando ci sei dentro, non diventano reali, ma continuano ad essere sogno. Questa stranissima condizione di continua sospensione dalla realtà mi è accaduta solo negli Stati Uniti.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 12Puoi parlarci del ritratto che hai fatto dell’America?
E’ sempre pericoloso usare la tua visione di qualcosa che non conosci a fondo, e la mia conoscenza degli Stati Uniti, nonostante i numerosi viaggi nell’entroterra, rimane una conoscenza per così dire turistica. Però avevo l’alibi di muovermi insieme ad un protagonista, Cheyenne, che mancava dagli Stati Uniti da trent’anni. Eravamo entrambi turisti, sebbene senza un biglietto di ritorno preciso. E così ci siamo messi alla scoperta di un mondo che è stato raccontato così tante volte proprio perché è inafferrabile e mutevole.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 13In questo film la musica gioca un ruolo molto importante. Come l’hai scelta?
Come direbbero certe scrittrici di romanzi rosa: col cuore.
Al di là della battuta, è proprio così. Non sentivo la necessità, come ho fatto in passato, di “ragionare” sulla musica. Volevo invece rivivere quelle vertigini di passione ed emozione che provavo da ragazzo quando mio fratello, di nove anni più grande, m’introduceva alla bellezza del rock. Ho trascorso quel periodo della mia vita a vivisezionare fino alla patologia soprattutto i Talking Heads e il suo genio: David Byrne. E allora un po’ temerariamente ho chiesto a David Byrne tre cose: di usare "This must be the place" come titolo e canzone portante del film, di comporre la colonna sonora e di interpretare se stesso nel film. E, clamorosamente, David ha accettato tutte e tre le cose.
Intervista Paolo Sorrentino: Domanda 14Come credi che reagirà il pubblico?
Io ho reagito molto bene. E io faccio parte del pubblico.
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This must be the place
di Paolo Sorrentino
Drammatico, 2011
118 min.
Film diretti:
2015  Youth - La giovinezza
2013  La grande bellezza
2011  This must be the place
2008  Il divo
2006  L'amico di famiglia
2004  Le conseguenze dell'amore
2001  L'uomo in più
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