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Esce venerdì 23 dicembre nelle sale italiane, distribuito da Lucky Red, la commedia sentimentale franco-belga "Emotivi anonimi", la storia del rapporto tra gli iper-emotivi Angélique Delange (Isabelle Carré) e Jean-René Van Den Hugde (Benoît Poelvoorde), incapaci di reggere le emozioni ma che trovano un punto d'incontro grazie al cioccolato. L'ufficio stampa del film ha diffuso la seguente intervista al regista, Jean-Pierre Améris. |
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Come è nato questo progetto? |
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Ho la sensazione di averlo sempre avuto dentro. Tra i miei film è sicuramente il più personale e autobiografico. Ho sempre saputo che un giorno avrei raccontato una storia sulla mia iper-emotività, sul panico che talvolta mi prende fin da quando ero piccolo.
Mi ricordo che da bambino, quando dovevo uscire di casa, sbirciavo prima attraverso il portone semiaperto per accertarmi che non ci fosse nessuno per la strada. Se arrivavo tardi a scuola,non riuscivo a entrare in classe. E la cosa si è aggravata durante l’adolescenza e questo, tra l’altro, è uno dei motivi che ha scatenato la mia passione per il cinema. Protetto dal buio delle sale, ho potuto finalmente provare paura, tensione, gioia, speranza, ho potuto lasciarmi andare a tutte le emozioni più forti, senza preoccuparmi di essere visto dagli altri. |
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Come definirebbe il profilo tipo di un iperemotivo? |
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Non è timidezza, è un’altra cosa. Si tratta di persone che vivono in uno stato di tensione semi-permanente, divise tra un desiderio fortissimo di amare, lavorare, esistere e qualcosa che le trattiene e le blocca ogni volta. Sono spesso piene di energia, e non sono né depresse né deprimenti. E’ questo loro tipico stato di tensione che mi ha fatto pensare ad una commedia, perché questa cosa le fa trovare spesso in situazioni incredibili. Nei gruppi d’ascolto ho sentito cose decisamente buffe, delle quali finivamo col ridere tutti insieme.
Gli iperemotivi sono talmente pronti a tutto pur di evitare ciò che fa loro paura, che finiscono col ritrovarsi in situazioni complicatissime e davvero grottesche. E quando osano passare all’azione, possono arrivare a fare cose folli. Funzionano come dei motori a scoppio. Uno spunto formidabile per una commedia. |
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I suoi film parlano sempre di personaggi che hanno difficoltà a trovare la propria collocazione?... |
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Ho sempre raccontato storie di individui solitari che cercano di integrarsi in un gruppo. Hanno paura, ma cercano un legame. E’ quello che mi piace raccontare nei miei film, ed è anche in un certo senso la funzione del cinema quella di creare un legame, di unire. L’iperemotività è una caratteristica che può isolare molto. Da bambino ero un tipo abbastanza solitario. Pur non essendo mai arrivato a tanto, ho conosciuto anche persone che non riuscivano ad uscire di casa. Tutto diventa una prova da superare. Andare a prendere il pane o incrociare gente per le scale comporta uno sforzo. Si ha paura dell’altro e del suo sguardo. |
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Come ha strutturato la storia? |
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Ho davvero pensato a questo film per anni, e l’ho nutrito degli incontri che ho fatto e della mia personale esperienza. Le cose hanno cominciato a cristallizzarsi quando mi sono reso conto che si poteva affrontare un tema come questo usando la commedia romantica. Il potenziale delle situazioni che possono crearsi tra due persone affette da iperemotività era enorme. Ho cominciato a raccogliere appunti, a documentarmi. Ho anche letto molto, in particolare l’opera di Christophe André e Patrick Legeron La paura degli altri. Alla fine avevo più di cento pagine di appunti e riflessioni, ma è stato incontrare Philippe Blasband, uno sceneggiatore belga, a permettermi di costruire l’intreccio. Gli ho parlato del desiderio di scrivere una commedia romantica su due grandi emotivi che ignorano di avere lo stesso problema, partendo da tutto il materiale autobiografico che avevo.
Abbiamo iniziato subito a lavorare alla storia. Molte delle testimonianze che avevo
raccolto nei gruppi di ascolto riguardavano il mondo imprenditoriale e desideravo che l’incontro avesse luogo in un ambiente lavorativo. Poi con Philippe ci è venuta l’idea del cioccolato, forse perché eravamo in Belgio, lavoravamo a Bruxelles in una sala da thé, ma più probabilmente perché il cioccolato non è certo un alimento insignificante. E’ noto per la sua capacità di far sentire meglio le persone, ha un profumo e un sapore legati all’infanzia, e chi soffre d’ansia spesso ne abusa. Da lì l’idea della fabbrica di cioccolato, della quale il protagonista sarebbe stato il proprietario e lei una cioccolataia. |
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Come ha scelto gli attori? |
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Ancor prima di iniziare a scrivere avevo parlato del progetto a Isabelle Carré. Con lei avevo appena finito di girare Maman est folle per la televisione e avevamo scoperto di avere molte cose in comune. Con Isabelle mi sono sentito a mio agio come raramente mi capita. Ho avuto l’impressione di incontrare una specie di alter ego. Abbiamo parlato del soggetto del film e lei si è dimostrata subito interessata. Avendo cominciato a parlarne così in anticipo, abbiamo potuto arricchire il suo personaggio di tante piccole cose nate da lei o da me. E’ un’attrice con la quale penso di avere una vera affinità e spero di lavorare ancora con lei. Anche Benoît Poelvoorde mi è venuto in mente subito. In Benoît si percepisce una certa tensione. Quando recita si lancia sulla scena proprio come un iperemotivo si getterebbe nella vita. E’ come se si lanciasse nel vuoto, senza reti di protezione. E’ un genio della comicità e, come tutti i grandi artisti del suo livello, le incrinature e le emozioni sono sempre ad un passo. Riesce a commuoverti pur rimanendo divertente. L’idea era anche quella di farlo vedere sotto una luce un po’ diversa, mettendo in evidenza la sua capacità di emozionare mentre esprime il suo talento comico. Scrivere per lui e Isabelle ci ha davvero ispirato. |
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In relazione a questo film, qual è la cosa di cui è più soddisfatto? |
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Sono ammirato dalla potenza comica e dalle emozioni che Benoît e Isabelle sono riusciti a sprigionare. Hanno infuso vita ai personaggi attraverso la loro umanità. E ci si affeziona a loro. Su un piano più personale, questo film rappresenta una tappa importante nel mio percorso. Dentro di me comincia a sciogliersi qualcosa, affronto molte più cose, ho voglia di andare dalle persone e dire loro che non bisogna vergognarsi di avere fifa e che l.’unica cosa triste è non provarci. Nel film, Angélique e Jean-René non supereranno tutto, ma non saranno più soli. Spero che questo film riesca a rendere felice la gente. |
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