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Lucky Red porta nelle sale italiane venerdì 13 gennaio “La chiave di Sara”, adattamento cinematografico del libro di Tatiana de Rosnay ad opera di Gilles Paquet-Brenner con lo sceneggiatore Serge Joncour. Kristin Scott Thomas veste i panni di una giornalista americana che, a Parigi, lavora ad un'inchiesta sulla deportazione del '42 al Velodromo d'inverno e si imbatte in Sara, al tempo bambina di solo dieci anni. Il regista francese racconta il suo lavoro in questa lunga intervista, diffusa dall'ufficio stampa del film. |
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Come è nato il desiderio di portare sullo schermo il libro di Tatiana de Rosnay? |
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L’idea di questo film è nata tre mesi prima dell’uscita di “UV Seduzione fatale”. Mi sono imbattuto nel libro di Tatiana de Rosnay e l’ho letteralmente divorato. Il suo intreccio è avvincente: oltre a raccontare il rastrellamento del Velodromo d’Inverno e i campi di concentramento del Loiret, li riesamina attraverso uno sguardo contemporaneo: dopo aver scoperto un segreto di famiglia, una giornalista americana che vive in Francia conoscerà meglio la storia del suo paese di adozione mentre la sua vita resterà sconvolta da qualcosa che all’inizio sembrava non riguardarla.
La storia esplora anche zone d’ombra di cui si è sempre parlato poco, come il comportamento dei testimoni dell’epoca, dei quali collaborazionisti e partigiani costituivano solo una piccola parte. La maggioranza delle persone semplicemente faceva finta di non vedere, cercando così di salvarsi la pelle; come la famiglia Tezac, che in linea di massima non ha fatto niente di male eppure si sente colpevole; o come i Dufaure, eroi quasi loro malgrado. Il libro rifugge da schemi manichei: ci sono i fatti e anche le conseguenze sulle generazioni future, e si è lontani dalle semplificazioni alle quali siamo abituati. Ha anche alcune affinità con la mia storia personale. |
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In che modo? |
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Sono di origine ebraica e gli uomini della mia famiglia sono spariti in quel periodo. Mio nonno, un musicista ebreo tedesco che aveva sempre vissuto in Francia, è stato denunciato da alcuni francesi ed è morto all’inizio della sua deportazione. Gli rendo omaggio nel film attraverso il personaggio dell’uomo con il violino che ha un anello contenente del veleno per poter decidere il momento della sua morte... Mia madre mi ha raccontato per la prima volta questo aneddoto durante la preparazione del film. Quando mio nonno è stato deportato io non c’ero, ma ne ho visto le conseguenze su mia madre, le sue sorelle, mia nonna... Nel libro ho ritrovato anche questo: i sopravvissuti che devono imparare a convivere con i morti. |
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E’ stato facile ottenere i diritti del libro da Tatiana de Rosnay? |
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Desideravo farne un film prima ancora di finire di leggerlo.
Informandomi, ho saputo che Tatiana e Serge Joncour, l’autore di “UV Seduzione Fatale”, si conoscono e si stimano a vicenda. Tatiana ha così saputo che volevo adattare il romanzo e abbiamo contattato la sua casa editrice. Siamo stati i primi a fare questo passo, dato che ho avuto la fortuna di leggere il libro abbastanza presto, qualche giorno dopo la sua uscita. Poi, con il successo del romanzo, Tatiana è stata subissata di proposte, soprattutto americane, ma lei ha mantenuto la parola data e ha continuato ad accordare a noi la sua fiducia. |
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Nell’adattamento avete modificato molto del romanzo? |
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No, siamo rimasti abbastanza fedeli al romanzo, tranne per un elemento fondamentale. Nel libro il fratellino di Sara va da solo a rifugiarsi nell’armadio a muro mentre la sua famiglia viene arrestata.
Nel film è Sara che gli chiede di farlo, e questo modifica il suo personaggio amplificando il suo senso di colpa. Un altro cambiamento importante è stato inserito per porre rimedio ad una frustrazione di molti lettori che rimpiangevano, come me, che nel libro non apparisse più Sara dopo la scoperta di suo fratello. Con Serge abbiamo perciò sviluppato per lo schermo il personaggio di Sara da adulta. Ma l’adattamento non è stato particolarmente difficile, perché il libro è strutturato benissimo. Le sole vere difficoltà sono state quelle relative al passaggio da un’epoca all’altra, dal 1942 ai giorni nostri, e dover comprimere tutto in due ore. E in effetti all’inizio Serge mi aveva portato una prima versione di 250 pagine! |
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Come mai ha scelto Kristin Scott Thomas per interpretare il ruolo della giornalista? |
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Il suo profilo personale corrisponde in modo inquietante a quello di Julia Jarmond. E questo peraltro le faceva un po’ paura, perché non aveva mai interpretato un personaggio che le somigliasse tanto. Stéphane Marsil conosce Kristin per aver prodotto “Arsene Lupin”, e “Ti amerò sempre” è uscito nelle sale proprio mentre stavamo ultimando la nostra sceneggiatura. Ora, con questo film si è creato tra lei e il pubblico francese un legame forte e stabile. Le abbiamo inviato la sceneggiatura ma, siccome era impegnata a teatro a Broadway, la sua risposta non è stata immediata. Intanto si avvicinavano le presidenziali USA e a me è venuta voglia di andarle a vivere lì sul posto... Ho incontrato Kristin il giorno della vittoria di Obama, andandola ad aspettare all’uscita dal teatro. Lì, spinta dal desiderio di raccontare questa storia, ma senza dubbio trascinata anche dalla strana euforia che regnava in città, mi ha detto di sì. Il suo coinvolgimento è stato decisivo.
Sicuramente per i finanziamenti del film, ma soprattutto per tutto quello che lei ci ha messo di suo. Ne “La chiave di Sara” la vediamo com’è nella vita vera: carismatica, moderna, molto al passo con i tempi. La sobrietà della sua recitazione e la sua classe naturale mantengono il film a distanza di sicurezza da possibili trappole lacrimevoli. Come dice lei stessa, lei c’è per rappresentare la coscienza dello spettatore. Un compito che però va svolto con il necessario equilibrio. |
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Come ha scelto Mélusine Mayanceper per il ruolo di Sara bambina? |
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Partivo da una certezza: i bambini si induriscono e crescono più velocemente in tempo di guerra.
Cercavo, in fondo, tanto la bambina quanto l’adulta che sarebbe diventata. Vedendo “Ricky” mi è venuta voglia di incontrare Mélusine. Ed è entrata a far parte di un gruppo di tre ragazzine che avevamo selezionato per far fare loro qualche prova prima dei provini filmati. Lo scopo era quello di conoscerle un po’ meglio, di valutare la loro maturità e vedere come avrebbero reagito alla durezza del soggetto. Alla fine ne sono rimaste due: una più istintiva e Mélusine, una professionista, che si è imposta con naturalezza. Era il film per lei! Ha inchiodato tutti. E’ precisa negli obiettivi che si pone, ha un senso innato della macchina da presa, è sempre al suo posto, senza la minima esitazione. Come ha detto François Ozon: "Mélusine non è una ragazzina, è un’attrice". Per un ruolo così difficile per la sua età, è una fortuna averla trovata. |
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Qual era il vero obiettivo che si era posto nel fare questo film e quali sono stati i suoi punti fermi nelle scelte di regia per poter riuscire in questo intento?
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L'obiettivo era un bel film da sabato sera, accessibile e popolare, ma che potesse anche stimolare a riflettere. Volevo tornare all’essenziale, a una sorta di classicismo. E volevo provare a me stesso di essere in grado di farlo.
All’inizio mi sono interrogato in particolare su come differenziare le due epoche. Come trovare e mantenere quella sobrietà così necessaria al soggetto trattato? Dove si situa il confine tra sobrietà e mancanza di creatività? Volevo anche esprimere attraverso le immagini la differenza dei mondi nei quali Sara e Julia crescono: il caos dell’occupazione contro un certo confort borghese. Così ho deciso di girare tutta la parte relativa al 1942 con una macchina da presa a spalla e delle lenti a focale corta per mostrare sempre il punto di vista dei personaggi e rimanere dentro lo svolgersi dell’azione; il tutto alternando delle immagini più grafiche per ricreare l’atmosfera, come quelle per la scena dell’evasione da Beaune La Rolande... Per la parte contemporanea ho, invece, optato per una messa in scena molto classica, limitando le inquadrature, affinché tutti i primi piani e tutti i movimenti avessero un significato. Il mio obiettivo era di fare in modo che gli spettatori potessero seguire la storia senza che la mia regia, seppure presente, li distogliesse neanche per un istante. Volevo che la storia fosse sempre al primo posto. |
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Ha avvertito responsabilità nei confronti della Storia? |
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Questo mi terrorizzava... Scrivendo non ci pensavo sul serio, perché in genere affronto i problemi uno alla volta, mano a mano che si presentano. Ma è venuto a galla in modo violento e improvviso quando ho letto "La petite fille du Vél’d’Hiv", di Annette Müller, una sopravvissuta che all’epoca dei fatti era di poco più giovane di Sara. Sicuramente è in quel momento che ho preso coscienza di ciò che stavo per immortalare. La mia preoccupazione è aumentata quando ho rivisto “Schindler’s List”. |
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C’è una scena che temevate di girare più delle altre? |
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Quella della separazione dei bambini dalle loro madri. E questo ancora di più quando mi sono ritrovato a girarla avendo accanto a me Annette Müller, venuta con suo fratello Michel, che era con lei nel 1942.
Ero immerso nella mia bolla, non volevo essere influenzato dall’emozione che si percepiva sul set per non diventare troppo compiacente. Ho cominciato piazzando la macchina da presa a distanza, in fondo, per controllare come si sarebbero posizionate le comparse. Che sono state eccezionali. Il loro contributo al film è stato impagabile. Poi mi sono avvicinato lentamente al cuore dell’azione. In mezza giornata però non sono riuscito a catturare l’essenza di quello che vedevo, l’intollerabile barbarie, e la mia preoccupazione aumentava. Ho chiesto allora all’operatore di posizionarsi con un 14mm in mezzo alla gente, non facendo caso agli spintoni o agli urti. Si è fatto male, ma in cinque ciak ha ottenuto quel caos che si vede ora sullo schermo.
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Lei è il primo ad aver girato nel Memoriale della Shoah. |
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Sì. Il Memoriale non era mai stato ripreso per un film di finzione. E la scena in cui il personaggio di Kristin vi si reca è un po’ rischiosa, perché si può scivolare facilmente nella politica. L’uomo che incontra lì le riassume così la sua missione: "sfuggire alle cifre e alle statistiche per restituire un volto e una realtà a ciascuno di quei destini". Queste parole definiscono lo scopo ultimo del mio film. Finora i film sull’Olocausto sono rimasti – in modo comunque indispensabile – sul piano della Storia con la S maiuscola. In questo campo io non mi sentivo a mio agio. E’ stato già fatto moltissime volte e, secondo me, “Schindler’s List” è insuperabile. Mi sono allora chiesto quale piccola pietra avrei potuto aggiungere io per contribuire alla costruzione di questo edificio. E ciò che mi è sembrato giusto fare è stato cercare di far "sentire" questa tragedia alla gente, prescindendo dai grandi discorsi, per restituirle una dimensione concreta e palpabile, una dimensione umana, facendo in modo che lo spettatore si senta a contatto con gli eventi, indipendentemente dalle opinioni e dalle origini di ciascuno. Il personaggio di Kristin è americano e non ebreo. La storia di Sara e della Shoah quindi non è la sua storia, ma la toccherà in modo indiretto. Questo potrebbe succedere a chiunque. |
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