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Accolto con scarso favore sia dal pubblico sia dalla critica americana arriva in Italia l'ultimo film di Gabriele Muccino. “Quello che so sull'amore” è una "commedia drammatica" che conta su un cast stellare. Accanto al protagonista Gerald Butler, Jessica Biel, Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones e Dennis Quaid. In sala dal 10 gennaio in 450 copie e distribuito in Italia da Medusa Film, si spera che la pellicola incontri il favore dei fan italiani del regista. Presentando il film in conferenza stampa, Muccino rivela più di un retroscena sulla produzione. |
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Negli Stati Uniti il film non ha avuto una buona accoglienza né da parte della critica né del pubblico. A cosa credi sia dovuto questo insuccesso? |
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Negli Stati Uniti, e in generale nel mercato anglosassone, esiste una distinzione molto netta tra i generi cinematografici: ogni prodotto deve collocarsi rigidamente all’interno delle regole del suo genere per essere apprezzato dal pubblico. In Italia abbiamo un altro gusto, a noi piacciono i film “ibridi”, siamo più flessibili riguardo al rispetto di queste regole. Il problema con “Quello che so sull’amore” è stato fondamentalmente di marketing: si tratta di una commedia drammatica basata sulle relazioni umane e hanno cercato di venderlo come una commedia romantica, sigla che nel mercato statunitense identifica film molto più leggeri e di stampo completamente diverso. Lo stesso problema si era già verificato con Sette anime: per me era un ibrido all’interno di un genere drammatico, ma la distribuzione l’ha pubblicizzato addirittura come un thriller.
Il paradosso è che “Quello che so sull’amore” al pubblico era piaciuto! Nessun produttore americano manderebbe mai un film in sala senza fare dei test screening (proiezioni di prova) e cinema score (interviste al pubblico), e in questi test il film era andato decisamente bene. Il marketing sbagliato e la decisione di farlo uscire nel week end pre-natalizio lo hanno penalizzato. In quel week end il pubblico tende a non andare in sala ma preferisce dedicarsi agli acquisti, quindi quando è arrivata la concorrenza dei blockbuster candidati agli Oscar siamo stati spazzati via, senza poter nemmeno contare sul passaparola di chi aveva visto il film.
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Sulla stampa si è parlato di una lavorazione del film piuttosto lunga che ha richiesto anche una settimana di riprese aggiuntive. Quanto c’è di vero in queste voci? |
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Una delle cose che ho imparato lavorando negli Stati Uniti è che se il regista non è anche produttore del film, o non collabora strettamente con un suo produttore di fiducia, la situazione si complica sempre. Nel caso di “Quello che so sull’amore” bisogna chiarire che non si tratta di una produzione hollywoodiana, il film è stato in gran parte girato con fondi europei e vi hanno collaborato ben tredici diversi produttori. Come si può immaginare, non è stato facile mediare le esigenze di tutti … Durante il montaggio, dove ogni regista arriva stanco e dove è più facile avere momenti di poca lucidità, i produttori mi hanno chiesto di tagliare delle scene e io li ho accontentati. Il test screening su quella versione, e notate che al regista è consentito presentare il suo montaggio al pubblico solo due volte prima del giudizio definitivo, fu pessimo e, quindi, mi sono giocato tutto sul montaggio successivo inserendo nuovamente quelle scene. Si trattava di un dialogo tra Uma Thurman e Gerald Butler in cui la donna mostrava tutto il suo dolore e la frustrazione per la vita che conduceva. Questa versione è stata accolta molto bene dal pubblico del test, ma nei questionari si rilevava che proprio la presenza di queste scene molto drammatiche rendeva difficile inquadrare la pellicola in un genere, quindi sono state effettivamente eliminate. Questo ha reso necessario girare delle scene di raccordo, che mantenessero l’omogeneità della narrazione e il clima generale della storia. |
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Un’altra voce che si è sentita in giro parlava di un finale riscritto … |
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Questo non è del tutto vero. Il film ha il finale che doveva avere fin dall’inizio, ho solo girato delle scene in più per renderlo esplicito. La mia intenzione era lasciare il racconto a un punto di sospensione, in cui si capisse come si sarebbe concluso ma senza mostrare il finale. Anche qui le proiezioni di prova hanno evidenziato la preferenza degli spettatori per una conclusione chiara e univoca … |
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George è un uomo adulto che si trova a dover maturare velocemente, abbandonando uno stile di vita irresponsabile. Quanto c’è di autobiografico nella scelta di girare questo film? |
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Credo che anche raccontare storie che non si sono vissute in prima persona ma magari solo osservate a distanza oppure che suscitano in noi empatia sia, in un certo senso, autobiografico. Volevo raccontare anche il modo di vivere la famiglia in America, un paese dove spesso i nuclei familiari sono separati da un capo all’altro del paese e si vedono veramente solo il Giorno del Ringraziamento e a Natale. George è un uomo in viaggio verso la maturità che per alcuni arriva verso i quarant’anni. Personalmente credo che se si resta ragazzi troppo a lungo poi si invecchia male, l’età adulta deve essere usata saggiamente per preparare la terza età. |
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Com’è essere un regista italiano a Hollywood? |
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Negli Stati Uniti so di andare incontro a una competizione fortissima, spesso devo contendere copioni interessanti a registi premio Oscar e non è facile. A Hollywood sono arrivato con Will Smith, un amico ma anche un attore e produttore con una potenza inimmaginabile da noi in Italia, in pratica mi ha imposto lui alla Columbia Pictures per La ricerca della felicità. Will, ovviamente, è insostituibile e mi ha insegnato l’importanza di lavorare sempre con almeno un produttore “di fiducia”, su cui poter contare. Non è stato facile per me inserirmi in una cultura di cui, in realtà, non sapevo quasi niente. Inizialmente non parlavo neppure inglese … Devo dire, però, che anche nelle peggiori stroncature ai miei film nessuno ha mai attaccato la mia “italianità”, segno che sono riuscito a capire i meccanismi della cultura americana e a mimetizzarmi in questo ambiente.
Attualmente credo di essere l’unico regista italiano ad aver veramente lavorato all’interno dello studio system hollywoodiano, anche se quest’ultimo film in realtà è stato il prodotto di più finanziamenti convergenti. Anche in America, non è il cinema a essere in crisi ma i meccanismi di finanziamento delle corporation che possiedono gli studios, che quindi tendono a essere ancora più rigidi sui canoni dei generi cinematografici, nella speranza di assicurarsi un successo economico. Non escludo, in futuro, di provare a girare un film indipendente, cercando finanziamenti al di là degli studios. |
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Come ti auguri che sia accolto il film qui in Italia? |
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Io ho la grande, grandissima fortuna di avere l’Italia alle spalle: è un paese dove mi piace vivere, dove so di poter lavorare con chi voglio e dove posso contare su un pubblico affezionato. A volte penso di tornare a vivere qui ma voglio tornare da vincitore, quando lo dico io. Però avere questa porta aperta alle spalle, non lo nego, mi aiuta molto a affrontare la competizione feroce che mi trovo davanti in America. Spero che il “mio” pubblico, che mi ha sempre seguito negli anni, sia contento di ritrovarmi al cinema e sono sicuro che gli italiani usciranno soddisfatti dalla sala. |
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