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Quanto è personale questo film? |
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Questo film è molto personale e ha molti legami con la mia famiglia, ma non è assolutamente autobiografico. Per personale intendo che tratta di problematiche ed emozioni che ci sono vicine, che puoi comprendere profondamente e che sei capace di esprimere, mentre autobiografico si riferisce alla rappresentazione dei fatti legati alla propria vita.
I miei nonni arrivarono dalla Russia o dall’Ucraina, a seconda dell’epoca a cui facciamo riferimento, da Ostropol una città non lontana da Kiev. I genitori di mia nonna sono stati assassinati dall’Armata Bianca durante un pogrom. Nel 1923 mio nonno e mia nonna sono arrivati negli Stati Uniti passando per Ellis Island. Ovviamente ho sentito molti racconti su Ellis Island ed ho maturato un’ossessione per questo luogo. La prima volta che ci sono stato, nel 1988, fu prima che restaurassero l’ isola: era come se fosse stata congelata nel tempo. Era un’ immagine spettrale, c’erano i moduli per l’immigrazione compilati a metà sul pavimento... Mi è sembrata invasa dai fantasmi, i fantasmi di tutta la mia famiglia. Così ho voluto realizzare un film che scaturisse da tutto questo. Inoltre, il mio bisnonno da parte di madre, gestiva Hurwitz’s, un ristorante nel Lower East Side, e conosceva loschi individui di ogni genere. Mi sono documentato su questo mondo e ho scoperto un tizio chiamato Max Hochstim che era il magnaccia locale. E’ così che ho messo insieme i pezzi per la storia di Bruno che, ad Ellis Island, recluta per il suo harem le donne che, se arrivavano da sole, non venivano ammesse negli Stati Uniti. Era una storia interessante, da unire alla straziante estraneità provata dai miei nonni quando lasciarono l’Europa dell’ Est per recarsi negli Stati Uniti. Il processo d’immigrazione era intriso di grande nostalgia, di angoscia e sicuramente di forte trepidazione. |
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La sostanziale differenza tra la sua famiglia ebreo russa ed il personaggio di Ewa è dovuta al fatto che Ewa è una polacca cattolica. Perché ha fatto questo cambiamento? |
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L’ho fatto per molte ragioni. Prima di tutto volevo che Ewa si sentisse spaesata anche nel Lower East Side dove tutti erano immigrati ebrei. Non volevo darle alcuna possibilità di integrazione. Inoltre c’era il fatto che la storia si basa sull’ idea che nessuno è così vile o orribile da meritare di essere dimenticato o odiato. Per quanto malvagio credo che ognuno sia degno di essere considerato. Ed è un concetto molto francescano. Ho pensato a Robert Bresson, al suo “Il diario di un curato di campagn”a soprattutto per la scena della confessione. Volevo un’atmosfera austera e mitica. Ma il film non è mai stato pensato solo come un omaggio a Bresson. In parte è stato anche ispirato dalla tradizione dell’opera e del melodramma. Attraverso le fortissime emozioni e le situazioni drammatiche si cerca di raggiungere una verità superiore. Per questo motivo ho utilizzato nel film le musiche di Puccini, Gounod e Wagner. |
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Ha scritto il ruolo pensando a Marion Cotillard? |
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Sì. Non avevo visto i suoi film ma l’ ho incontrata con Guillaume Canet quando lui e io siamo diventati amici. Sono andato a cena con lui e c’era anche Marion. Ho pensato che avesse un viso incredibile, mi ricordava Maria Falconetti ne “La Passione di Giovanna D'Arco ”di Dreyer. Ho pensato: questa donna non ha bisogno di parlare. E’ talmente espressiva che potrebbe fare un film muto. Ovviamente poi, ho finito per darle una tonnellata di dialoghi! Ma ho scritto il film per lei, perché è la storia di un’immigrata e ho pensato che lei potesse trasmettere uno stato d’animo in maniera non verbale. Non credo che avrei fatto il film senza di lei. La grande sfida per lei era sicuramente parlare il polacco, che è risultato impeccabile. Un giorno ho chiesto all’attrice che interpreta la zia cosa pensasse del polacco parlato da Marion. Ha detto che era eccellente ma che aveva un vago accento tedesco. Ne ho parlato con Marion che mi ha detto: "Sapendo che il mio personaggio viene dalla Slesia, che è situata tra la Germania e la Polonia, lo sto facendo di proposito". Questo per dire quanto sia precisa! Mi ha spiazzato. |
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Dal punto di vista visivo "C'era una volta a New York" è splendido. Che tipo di lavoro avete fatto con il direttore della fotografia, Darius Khondji? |
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Volevo raggiungere una bellezza visiva che rispecchiasse la natura operistica della storia. Ho lavorato molto bene con Darius, che è un uomo dotato di grande sensibilità. E’ stato come un fratello per un anno. Abbiamo visitato musei, guardato dipinti, fotografie a colori dei primi anni del XX secolo. Abbiamo anche visionato delle Polaroid degli anni ’60 realizzate dall’architetto e designer Carlo Mollino: sono il risultato raggiunto dalla tecnologia moderna che più si avvicina agli autocromi in termini di saturazione del colore e densità dei neri. Con Dario abbiamo parlato molto del colore e delle inquadrature, da che parte illuminare il set e perché. L’intenzione nei miei film precedenti era che fossero naturalistici. Sapevi sempre da dove proveniva la luce. Ho abbandonato questa visione perché volevo raccontare una favola. |
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Perché il melodramma la attrae così tanto? |
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Quando cerchi di esprimere delle emozioni – e quando cerchi di essere onesto, e non lo fai solo per accattivarti il pubblico – devi pensare: Sono stato fedele alla situazione? In altre parole, il contesto narrativo giustifica quello che l’attore sta cercando di trasmettere? L’attore o l’attrice in questione sta recitando con convinzione, oppure si comporta con condiscendenza verso il personaggio? Se l’attore è in completa sintonia con il personaggio la recitazione non sarà né eccessiva né sottotono”. Esiste solo una verità o una non verità e per me sta nella differenza tra melodramma e melodrammatico. Se ti impegni, allora il risultato non sarà né innaturale né forzato.
Ho pensato che potesse essere audace provare a fare un film usando questa idea di melodramma, con tutta la sua gamma di emozioni, al fine di rappresentare quella condizione psicologica molto moderna che è la co-dipendenza. Un film nel quale due persone, per quanto in maniera perversa, finiscono per avere bisogno l’ una dell’ altra. La vita sembra sempre volerci forzare in situazioni scomode, e questi scenari sono spesso segnati dalla tragedia, ma sono anche proprio quelli che fanno una buona storia. |
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