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Peter Greenaway rilegge la biografia del grande regista russo Eisenstein a partire dal suo soggiorno messicano per i sopralluoghi del film "Que viva Mexico!". Presentato in concorso al Festival di Berlino, "Eisenstein in Messico" è una riflessione sul cinema, la morte e le pulsioni più profonde degli uomini, oltre a un viaggio nella materia da cui nascono i capolavori. Il regista racconta alla stampa il suo particolare approccio artistico a queste tematiche. |
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A che età ha scoperto il cinema di Eistenstein? |
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Ho scoperto i film di Eisenstein per caso, quando avevo diciasette anni. La prima sorpresa fu “Sciopero”, girato nel 1925all’incredibile età di ventisette anni, e mi rese impaziente di vedere tutti i film di questo regista per me sconosciuto: era il 1959, erano trascorsi solo undici anni dalla sua morte nel 1948, all’età di cinquant'anni. Passai in rassegna tutti i film degli autori sovietici a lui contemporanei e, a parte il fascino esercitato dall’ampia gamma degli entusiasmi visivi di Vertov, Eisenstein rimasela più grande fonte di eccitamento. In Eisenstein c’erano degli obiettivi alti e un’intelligenza cinematografica veloce e consapevole: nessun film muto americano si muoveva a una simile velocità e nessun film in generale conteneva una tale quantità di inquadrature nonché una sorprendente violenza dell’azione unita a un’attrazione verso la violenza in sé. Inoltre, il suo cinema abbracciava un uso della metafora e delle associazioni per immagini che non lo rendevano schiavo di una narrazione prosaica, ma gli permettevano piuttosto di correre come l’immaginazione umana, mescolando passato, presente e futuro, vecchio e nuovo. Meraviglioso! Avevo trovato il mio primo eroe cinematografico. |
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Perchè concentrare questo film sul soggiorno di Eisenstein in Messico? |
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C’erano dei misteri intorno a Eisenstein e forse l’enigma estetico che più mi colpiva era come fosse possibile che i suoi primi tre capolavori (“Sciopero”, “La Corazzata Potemkin” e “Ottobre”) fossero così diversi dagli ultimi tre (“Aleksandr Nevskij”, “Ivan il Terribile” e “La congiura dei boiardi”). È avvenuto un cambiamento nel suo modo di fare cinema e non solo a causa dello spirito divendetta e della cecità di Stalin. Ho cominciato a credere che il motivo furono piuttosto quegli anni, tra il 1929 e il 1931, che Eisenstein passò lontano dall’Unione Sovietica. Quando si è lontani dal proprio paese ci si comporta diversamente e viaggiando attraverso la Russia, l’Europa occidentale e l’America, Hollywood compresa, Eisenstein conobbe le maggiori figure della cultura dell’epoca, da Joyce a Brecht, da Stroheim a von Sternberg, da Chaplin a Disney, da Buñuel alla Garbo, da Frida Kahlo a Diego Rivera. Tutte queste nuove conoscenze gli diedero nuove prospettive . Aveva una curiosità senza fine e un’immaginazione simile a un’enorme spugna. In Messico, egli rimase colpito profondamente dai traumi emotivi del sesso e della morte: "questo paese è stupefacente. La grandi cose della vita aggrediscono in continuazione la testa, lo stomaco, il cuore. Niente può essere superficiale".Il sesso e la morte, Eros e Thanatos,l’inizio e la fine, entrambi inconoscibili e non negoziabili. Eros e Thanatos ti rendono più realistico, riducono ogni forma di esibizionismo, esigono attenzione per fare uso della tua mortalità: tutto questo colpì Eisenstein nel profondo in Messico. Egli non perse mai la propria intelligenza cinematografica ma credo che all’estero, lontano dal clima sovietico di cospirazione e paranoia e da tutto quel materialismo dialettico (che nessuno ha mai capito in che cosa esattamente consistesse) e ritrovandosi in un paese come il Messico, in cui si vive alla giornata, maturò emotivamente e apprese una nuova capacità di empatia e di immedesimazione di cui i suoi ultimi film sono la dimostrazione lampante |
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Chi era Palomino Cañedo? |
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Palomino Cañedo, guida messicana di Eisenstein e insegnante di religioni comparate, risponde alla curiosità del regista, e attraverso di lui impariamo il modo in cui i messicani hanno adattatoil Cristianesimo al loro stile di vita, la qualità della loro cucina, la rapacità della criminalità organizzata e lo stile alla Robin Hood dei folcloristici banditi locali che derubano gli stranieri. Ma la città di Guanajuato ci racconta ancora di più solo grazie alle sue chiese, ai mercati, ai campanili, ai caffè, alle strade... Il rapporto profondo del Messico con la morte, che culmina nella Festa d’Ognissanti, bilancia le ossessioni di Eisenstein sul fervore rivoluzionario e presto il regista si ritrova a condividere con Cañedo la fascinazione per quel mondo, indossando la maschera da scheletro, imparando a ballare con uno scheletro e leccando un teschio di zucchero. Eisenstein è arrivato a Guanajuato il 21 ottobre, il 25 cade l’anniversario della Rivoluzione Russa e il 31, quando il regista lascia la città, si celebra la Festa d’Ognissanti, o meglio Il Giorno dei Morti. Tale arco di tempo, in cui si svolge la sua storia d’amore, spingeEisenstein a dire: "Questi sono i dieci giorni che sconvolsero Eisenstein. Sono dovuto venire in Messico per andare in paradiso". |
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Quanto c'è di realmente biografico e quanto di finzione in questa storia? |
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Quanto di quello che c’è nel film è verità, quanto è finzione? I viaggi diEisenstein sono ben documentati e molte persone, consapevoli dell’incontro con un grande uomo, hanno lasciato diari, lettere e foto che lo riguardano. Molte battute della sceneggiatura sono citazioni di Eisenstein tradotte dal russo. La lettera a Stalin di Upton Sinclair (uno dei finanziatori del film) è vera, così come il telegramma di risposta. Le lettere del regista alla segretaria Pera Atasheva, ricche di confessioni intime, si possono ancora leggere. Scriveva Eisenstein: "proprio ora sono stato follemente innamorato per dieci giorni e ho avuto tutto quello che desideravo. Ciò avrà probabilmente enormi conseguenze psicologiche". Il vestito bianco e le bretelle rosse sono vere, veri i disegni erotici, veri i libri che amava portare con sé nei viaggi in gran quantità, veri gli incontri con Frida Kahlo, Cocteau e Brecht. E infine la verità più indiscutibile: che fu il più grande regista che abbiamo conosciuto. |
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