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Un altro film presentato al Festival di Cannes arriva nelle sale italiane. "Il figlio di Saul" di László Nemes si presenta al pubblico italiano contando sul prestigioso Gran Premio Speciale della Giuria. Al suo debutto cinematografico il regista ungherese si confronta con una storia durissima, ambientata nei campi di concentramento nazisti. Il regista racconta alla stampa lo sviluppo del film. |
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Com'è nata l'idea per questo film? |
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Stavo girando in Corsica “L’uomo di Londra” di Béla Tarr, con cui lavoravo come assistente alla regia. Le riprese erano state interrotte per una settimana, avevo molto tempo libero e in libreria ho trovato un volume pubblicato dal "Mémorial de la Shoah" con il titolo "Des voix sous la cendre" (in Italia "La voce dei sommersi", edito da Marsilio), che raccoglie gli scritti di alcuni membri dei Sonderkommando di Auschwitz. Prima della loro rivolta del 1944, queste pagine clandestine vennero nascoste sotto terra e ritrovate solo molti anni dopo la fine della guerra. Si tratta di una testimonianza straordinaria, che descrive i compiti quotidiani dei Sonderkommando, l’organizzazione del loro lavoro, le regole con cui veniva gestito il campo e lo sterminio degli ebrei, ma anche come questi uomini riuscirono a creare una certa forma di resistenza. Da questo libro è venuta l’idea de “Il figlio di Saul”. |
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Cosa la preoccupava nell'affrontare questo tema? |
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Ho sempre trovato frustranti i film sui campi di concentramento. Provano a costruire storie di sopravvivenza e eroismo, ma secondo me propongono di fatto una concezione mitica del passato. La testimonianza dei Sonderkommando è invece qualcosa di concreto e tangibile. Descrive in diretta il “normale” funzionamento di quella fabbrica di morte: la sua pianificazione, le regole, rischi, i turni, i ritmi produttivi. Le SS usavano la parola "stück", pezzo, per riferirsi ai cadaveri, come se fossero oggetti prodotti in fabbrica. Questa testimonianza, insomma, mi ha permesso di vedere l’accaduto attraverso gli occhi dei dannati dei campi di concentramento. |
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Il film assume la visione soggettiva del protagonista.. |
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Un aspetto molto problematico del film è stato quello di raccontare una storia di finzione partendo dal contesto di questa testimonianza. Non volevo trasformare nessuno in un eroe, non volevo neanche assumere il punto di vista dei sopravvissuti, né mostrare troppo di quella fabbrica di morte. Volevo solo trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il più possibile semplice e arcaica. Ho scelto il punto di vista di un uomo, Saul Ausländer, un ebreo ungherese membro di un Sonderkommando, e mi sono attenuto strettamente a questa posizione: mostrare quello che vede, niente di più e niente di meno. Non si tratta però di una soggettiva pura, poiché sullo schermo noi vediamo Saul come personaggio: non volevo infatti ridurre il film a un approccio puramente visuale, che sarebbe stato artificioso, e ho preferito evitare ogni virtuosismo o esercizio di stile. Inoltre, quest’uomo è il punto di partenza di una storia unica, ossessiva e primitiva: crede di aver riconosciuto il figlio tra le vittime delle camere a gas ed è deciso a salvarne il corpo dai forni, trovare un rabbino che reciti il Kaddish e seppellirlo. Tutto quello che fa è legato a questa missione, che sembra completamente priva di scopo nell’inferno del lager. Il film resta tuttavia sempre legato al suo punto di vista e alla sua linea d’azione. Questa incrocia poi quella degli altri prigionieri, ma il campo è percepito per intero dalla sua prospettiva. |
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Perché ha deciso di girare in pellicola e in 35mm? |
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Insieme al direttore della fotografia e allo scenografo abbiamo deciso, prima di iniziare le riprese, che ci saremmo attenuti a una serie di regole: “il film non deve essere visivamente bello e accattivante”; “non possiamo fare un film dell’orrore”; “seguire Saul vuol dire non andare oltre la sua presenza e il suo campo visivo e uditivo”; “la cinepresa è la sua compagna e lo affianca in questo inferno”. Abbiamo anche scelto di girare in pellicola 35mm e di usare solo procedimenti fotochimici tradizionali nei vari momenti della produzione. Era l’unico modo di mantenere una certa instabilità nelle immagini e quindi essere capaci di filmare quel mondo in modo organico. La sfida era quella di raggiungere il pubblico in termini emotivi, cosa che il digitale non permette. Queste scelte implicano anche un’illuminazione diffusa, la più semplice possibile, un unico obiettivo, il 40mm, e un formato ristretto, il classico 1:1.37, che non allarga il campo visivo come i formati panoramici. Dovevamo restare sempre al livello visivo del protagonista e seguirlo. |
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