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In occasione dell’uscita in Italia di The life of David Gale, Alan Parker racconta i retroscena di un film nel quale ha fortemente messo in gioco il proprio ideale contrario alla pena capitale, uno dei punti fermi della politica di Bush. Mentre 33 stati americani continuano a praticare l’omicidio legalizzato, le voci fuori dal coro hanno comunque modo di manifestare il proprio dissenso. |
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Partiamo dalla fina: The life of David Gale parla della pena di morte, ma alcuni critici hanno giudicato il finale, così forte, fuori tema. Perché la scelta d’un finale di questo tipo? |
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Dire che questo film parli solo della pena di morte sarebbe riduttivo: ho voluto considerare molti aspetti, la volontà di sacrificare se stessi per una causa che non sia la propria, ad esempio; il ruolo degli attivisti politici, estremisti nel cercare di difendere i propri ideali. Sì, so che gli spettatori potrebbero uscire dalla sala combattuti tra il coinvolgimento emotivo ed il loro usuale atteggiamento ‘politicizzato’ nei confronti di questa realtà: ma è proprio questo che mi interessa, stimolare discussioni, non posso né voglio cambiare il modo di pensare della gente. |
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…di quelli che già non la pensano come lei: per l’appunto, qual è la sua posizione, in tema di pena di morte? |
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Contrario, assolutamente. Ma sono cosciente di non far parte di una maggioranza: nel mio paese più o meno una persona su due è a favore, e purtroppo i giovani sono per la maggior parte tra questi. Scendendo più in profondità, trovo inaccettabili le esecuzioni dei minorenni, dei malati mentali, come fanno in Texas, o in Virginia. Se non si riesce ad abolire del tutto la pena di morte, spero almeno che lo si faccia per questi casi. |
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Ci parli della sua esperienza durante le riprese, del braccio della morte, della stanza delle esecuzioni. |
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Si è trattato, ovviamente, di un’esperienza che mi ha segnato moltissimo, sempre a contatto con prigionieri, spesso violenti. La stanza delle esecuzioni è un luogo duro, da vedere, ma prevale la sensazione di distacco: è un luogo ‘giuridico’, dove vengono eseguite delle sentenze ‘legali’. Poi subentra la propria ideologia, l’accettare o meno questa ‘legalità’. |
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La sua posizione è antitetica rispetto a quella del governo americano. Ha avuto problemi? |
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Ammetto che sia un momento difficile per proporre grandi critiche, ma non ho impostato il film pensando a quale potesse essere il governo degli Stati Uniti al momento dell’uscita. Paradossalmente, con lo stato del Texas abbiamo collaborato benissimo. Quanto al pubblico è andata bene, anche se non potevamo esserne certi in partenza. |
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Si parla molto della realizzazione della scena con Kevin Spacey ubriaco, per strada. |
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Già: abbiamo ripreso Kevin che faceva finta di essere ubriaco in pieno centro di Austin, per poter afferrare le reazioni sui volti dei passanti che s’imbattevano in lui, senza che sapessero che si stava girando un film. Non c’è che dire, ne è uscita fuori una scena molto realistica, indubbiamente spontanea. |
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Come è stato lavorare con Kevin Spacey? |
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Un piacere. Lui, come anche Laura Linney, ha un enorme talento, ed un ancor più grande bagaglio teatrale, dal quale ha attinto disponibilità, pazienza, gentilezza; insomma, tutto il contrario dello stereotipo dell’attore hollywoodiano. |
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Qual è l’importanza della colonna sonora, in questo e nei suoi altri film? |
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Fondamentale, non potrei trovar altro aggettivo. Nello specifico la colonna sonora è stata realizzata dai miei figli, convogliando le esperienze classiche dell’uno con quelle moderne dell’altro. Per ogni film andrebbe fatto un discorso sulla musica a sé stante, primo fra tutti Evita, per il quale è stata incisa la colonna sonora prima che iniziassero le riprese del film, condizionandone in alcuni punti la trama. Per Le ceneri di Angela ho lavorato con John Williams: fu lui a contattarmi, ed è stata la mia miglior esperienza lavorativa con un compositore. Opposto, per forza di cose, è stato il procedimento dalle immagini ala musica con The Wall, ma il risultato è stato comunque ottimale. |
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Quand’è che la musica diventa protagonista? |
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Bisogna stare molto attenti, per cogliere i momenti giusti: dare eccessivo spazio alla musica di fondo porta a diminuirne l’importanza. Io non uso mai la musica durante un dialogo, ne risentirebbe il dialogo stesso, quindi non sarebbe una buona scelta. Il lavoro di mixaggio tra la colonna sonora ed il sonoro delle riprese è d’estrema importanza. |
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I film sopra citati sono tutti diversi tra loro, e potremmo aggiungere ancora Saranno famosi, Birdy o The Commitments; perché quest’enorme varietà nei generi? |
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Intanto credo che ogni regista abbia il desiderio di affrontare percorsi nuovi, di misurarsi con generi diversi: ripetersi non dev’essere molto stimolante. Io ha iniziato con Piccoli gangsters in un periodo in cui non avevo soldi per girare un film inglese, quello che sentivo di voler fare; così passai a Fuga di mezzanotte, accorgendomi che cambiare serviva a tenere viva la mia creatività. |
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Da quali registi sente d’essere stato, fino ad oggi, influenzato? |
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Non dal mio preferito, Ken Loach: i nostri lavori non hanno molto a che vedere, gli uni con gli altri. Come tanti, credo d’essere stato influenzato da Cassavetes, ma l’idea di fare il regista è nata dopo quella che chiamerei la mia ‘formazione cinematografica’, quindi non so dire chi o cosa mi abbia maggiormente ispirato. |
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E adesso? |
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Adesso non lo so: prima porto a termine un lavoro, poi mi metto a pensare al successivo. Non c’è fretta, ci penserò un po’. |
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