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La conferenza stampa di "Lions for lambs" è uno degli incontri più attesi della seconda edizione della Festa del Cinema di Roma: a parlare del film Robert Redford e Tom Cruise.
Serio ma profondo il primo, più intraprendente e allegro il secondo (che all'uscita si è trattenuto per oltre un'ora a firmare autografi), le due star hollywoodiane si sono sottoposte alle curiosità della stampa specificando, a più riprese, come non si tratti di un film sulla guerra in Iraq o in Afghanistan. |
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Come nasce questo progetto? |
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Quando ho ricevuto il copione – la sceneggiatura è di Matthew Michael Carnahan, lo stesso di “The Kingdom” – l’ho trovato molto intelligente, non ce ne sono molti di questa qualità in giro. Anche Tom Cruise e Meryl Streep hanno mostrato da subito il loro interesse.
Non riguarda la guerra in Iraq, ma un tema più profondo: le effettive conseguenze di questa guerra nel nostro paese. C’erano molti dialoghi, molti personaggi, riguardava cose che ci hanno toccato da vicino in questi anni. Ripeto, di questi tempi girano molti più film d’azione o con effetti speciali: dal mio punto di vista ho desiderato subito di essere il regista di questo film. |
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Come è cambiato il suo impegno, il suo approccio politico dagli anni ‘70 ad oggi? |
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Ovviamente il mio interesse è in quanto cittadino e in quanto artista. Ci sono due possibilità: ignorare la politica o interessarsene. Ho deciso di comunicare alcune delle cose che sentivo, in particolare l’amore per il mio paese, che ha molte virtù e mi sento toccato personalmente quando scompaiono o ne viene fatto un abuso.
Adesso i tempi sono un po’ cambiati, c’è più informazione ma anche più possibilità di manipolarla. Le cose che succedono nel mio paese sono sotto gli occhi di tutti.
Pensando al futuro, dico che appartiene ai giovani, che hanno come l’ho avuta io la possibilità di voltare le spalle o quella di prendere posizione, di agire e di avere un ruolo nel proprio futuro. |
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Bill Clinton ha detto: quel che c’è di brutto e sbagliato può essere risolto da quel che c’è di bello. E’ d’accordo? |
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Sì. |
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Pensa che il grande cinema abbia ereditato il compito di informazione e di investigazione che era proprio della stampa degli anni ’70? Ed esiste un’opinione pubblica pronta a rendersene conto? |
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Il paese è molto diviso, non è tutto o bianco o nero, non sono tutti cattivi i media o i politici: bisogna analizzare per trovare le più o meno piccole che cercano di fare il loro meglio.
Dopo l’11 settembre quasi tutti erano terrorizzati: il governo ci ha chiesto di accantonare i diritti alla libertà d’espressione per sostenerlo, e noi l’abbiamo fatto. Avevano tutto il potere – la maggioranza nelle due camere, tutte le cariche nei ruoli-chiave – e ci hanno chiesto fiducia: oggi abbiamo visto la verità, il perché di questa guerra, ne abbiamo visto il prezzo.
Il ruolo dei media è quello di mettere in discussione il ruolo della leadership, allora non l’hanno fatto.
Per quel che riguarda il cinema non ho mai creduto nel fare propaganda; bisogna invece illustrare una situazione, porsi delle domande. Il suo ruolo essenziale rimane principalmente quello di fare spettacolo, di divertire: si possono dire le cose importanti anche attraverso lo spettacolo. |
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Come si è arrivati a questo punto in America? Nel film non si capisce se lei sia ottimista o pessimista riguardo al futuro. |
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I’m a pessimist optimist. Nessuno può sapere con certezza se una cosa cambierà la politica, ma la maggior parte degli artisti, per poter vivere quel che vivono, hanno la speranza, una speranza che le altre persone si rendano conto delle cose belle del loro paese e vogliano proteggerle. |
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Che rapporto si immagina che avranno i giovani con “Lions for Lambs”? |
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A me da giovane non importava nulla della politica, non mi fidavo di chi la faceva. A 19 anni sono venuto in Europa per studiare arte a Firenze, è stata un’esperienza che mi ha fatto mettere in discussione perché ho visto altri giovani, come me, che mi chiedevano come facesse a non importarmi del mio paese, del mio futuro. Ho maturato un punto di vista sul mio paese più ampio e sono tornato maturato politicamente. Sono convinto che le cose mutino, e posso dire ai giovani: è il vostro futuro, dovete avere un ruolo attivo. In questo sono ottimista. |
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Secondo lei, le grandi star sono necessarie per il successo di un festival? |
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Io non penso che siano necessarie le star. Parlo a nome del Sundance, che è un festival indipendente, un luogo di scoperta: il cuore di un festival non è dipendere dalle star, noi ce la siamo cavata molto bene. (Qui gli organizzatori avrebbero potuto rispondergli: “infatti la nostra è una Festa, non un Festival!”, ma hanno preferito incassare il colpo in silenzio, ndr) |
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