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Il primo appuntamento del 2008 è la conferenza stampa di Abdellatif Kechiche, sceneggiatore e regista dell’attesissimo "Cous cous" (La graine et le mulet), protagonista all’ultimo Festival di Venezia di una vittoria sfumata all’ultimo minuto, e 'risarcito' con il Premio Speciale della giuria.
Ad accompagnare Kechiche in sala stampa la giovane Hafsia Herzi, vincitrice del Premio Marcello Mastrioanni riservato ad attori o attrici emergenti. |
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Il film è dedicato a suo padre. Ci parli della genesi di questo film. |
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E’ sempre difficile parlare dell’origine di un determinato progetto, soprattutto perché questo progetto risale a molti anni fa.
Innanzi tutto volevo dire però che il mio desiderio era quello di rappresentare dal punto di vista sociale proprio un ambiente, un ambiente che io conosco bene essendo in qualche modo il mio ambiente d’origine. Volevo raccontare un po’ la storia di tanti emigrati, così com’è il caso di mio padre, che sono arrivati negli anni ’50 e ’60 in Francia e hanno cercato di costruirsi la loro vita. Io ho sempre avuto una grande ammirazione, un grande rispetto per queste persone che hanno iniziato con questo spirito da avventurieri. |
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E’ eccezionale la scena del pranzo di famiglia: qual è il significato, il suo rapporto con il cibo? |
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Dietro la scena di questo pasto c’è proprio la volontà di riprendere la vita quotidiana, comune di una famiglia e una comunità. Volevo che emergesse proprio la vita così come io la sento e da questo punto di vista io credo che si possa dire che esiste in quella scena una vera e propria dimensione contemplativa. E’ qualcosa che mi ha meravigliato perché sappiamo che è una sorta di miracolo vedere al cinema le persone che mangiano e si divertono, che vivono veramente. Il cinema in fondo è il mondo dell’artificio, ma è importantissimo che riesca ad emergere la vita: proprio per questo ho chiesto ai miei attori di non far finta di mangiare, ma di farlo veramente. Non di rappresentare, ma di vivere quella scena, così che il pubblico potesse amare quei personaggi così come io li ho amati. |
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Cosa significa il cous cous? |
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Nella mia rappresentazione del cous cous c’è in fondo la rappresentazione di un’identità, qualcosa che le persone possano condividere; c’è anche un’idea di solidarietà, di qualcosa che unisce piuttosto che dividere. Il momento in cui si condivide il cous cous è un momento che unisce, nonostante i conflitti e le delusioni all’interno di questa famiglia. |
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Sulla scena dolorosa del padre che cerca di raggiungere la sua moto, ovvero qualcosa che non può raggiungere… |
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Il problema di quest’uomo è il problema di un uomo a cui la società ha rifiutato il giusto posto; niente può essere ottenuto senza l’aiuto degli altri. L’idea che volevo eliminare del tutto è quest’idea all’americana che bastino la volontà e l’impegno per ottenere qualcosa, l’idea che alla fine bisogni mostrare sempre la riuscita di un uomo che con la forza e con il coraggio riesce ad ottenere tutto: non è così. |
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Le donne di questo film sono lontane dagli stereotipi cinematografici europei: voleva rappresentare ‘donne normali’, che vede nella realtà, o voleva raccontare qualcosa di preciso con questa scelta? |
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Ovviamente tutti hanno una propria idea, molto personale, del bello. Io per esempio trovo molto tutti i personaggi estremamente belli dal punto di vista umano, non c’è alcun riferimento dal punto di vista estetico. Per questo nel mio film ho cercato di rappresentare le donne non nella solita maniera un po’ caricaturale con cui vengono spesso rappresentate le donne che provengono da una comunità araba. Volevo andare contro l’immagine della donna sottomessa, dominata dall’uomo, o comunque in conflitto con l’uomo stesso. |
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Ha parlato del desiderio di mostrare le cose in maniera reale. Quindi ha lasciato spazio all’improvvisazione degli attori? I dialoghi erano già previsti interamente in una rigida sceneggiatura o c’erano solo dei canovacci? |
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Ho qualche difficoltà a parlare di improvvisazione: io parlerei di libertà che viene lasciata agli attori. Prima di iniziare a girare un film passo moltissimo tempo con gli attori per liberare la loro energia vitale e creativa; molte scene sono rimaste sulla base della sceneggiatura che avevo scritto, altrettante sono cambiate moltissimo, ho voluto dare agli attori la libertà di appropriarsi del testo, di farlo loro, di rivedere quelle scene che non riuscivano a sentire come proprie.
Io non seguo mai lo stesso metodo con tutti gli attori, cerco di capire di cosa abbia bisogno ciascun attore: per esempio Bruno Lochet a bisogno di ricevere costantemente istruzioni dal regista, di conoscere completamente tutti gli aspetti del proprio personaggio. Hafsia, per la tecnica dell’attore istintivo, mi ricorda, senza essere irriverenti, le attrici italiane, un po’ Anna Magnani, Sofia Loren, che si gettavano anima e corpo nel personaggio. Hafsia non recita, ma vive il personaggio. |
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Parliamo della visione dell’erotismo, della sensualità araba. E’ una coincidenza l’uscita negli stessi giorni di “Caramel” o un segnale? |
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Nel caso delle donne di questo film non mi sono posto il problema di rappresentarle nella loro ‘arabità’; io sono un regista francese che vive e lavora in Francia, quindi ho cercato di rappresentare queste donne come donne. Cous cous e danza del ventre rappresentano un’identità che esiste in vari ambienti, in questo caso un ambiente popolare. Per me quello che era importante era rappresentare questa sensualità mediterranea, non solo araba.
Non ho visto “Caramel”, ma insisto sull’aspetto mediterraneo della sensualità. |
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Parlando del protagonista: fino a che punto è frutto della sua fantasia? Come è nato questo personaggio? |
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Il personaggio chiaramente si ispira molto a mio padre; all’inizio avrebbe dovuto essere mio padre ad interpretarlo, poi il film non si è fatto, nel frattempo mio padre è morto e ho cambiato programmi. Nell’ambito del casting ho visto tantissimi attori e nessuno mi sembrava quello adatto, poi mi è venuto in mente di vedere quest’operaio, Habib, che aveva lavorato con mio padre nei cantieri: sono andato a Nizza e ho cercato di parlare con lui che in qualche modo riusciva a capire cosa potessi volere da un attore per quel personaggio. |
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Quanto ha influito la sua esperienza precedente di attore in questo film, ad esempio nel rapporto con gli altri attori e nella loro direzione? |
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Ovviamente la mia esperienza di attore, in particolare di teatro, ha avuto un impatto fondamentale nella mia scelta di fare poi il mestiere di regista, ho una relazione epidermica con gli attori, sento i loro stati d’animo, i loro dubbi. Ritengo il mestiere dell’attore un’arte a tutto tondo, alla base del mio lavoro da cineasta. |
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Per finire, torniamo a Venezia: ha dimenticato la delusione per la mancata vittoria? |
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Quella è una delusione che non dimenticherò mai, anche perché Venezia nel mio immaginario è collegata a qualcosa di sacro, magico, ho avuto molto successo con il mio primo film “Tutta colpa di Voltaire”. La mia delusione è stata forse esagerata, io ritenevo che questo film fosse così giusto per Venezia, rendeva omaggio al cinema italiano, era veramente una dichiarazione d’amore che avrebbe meritato, in quel contesto, quel premio. |
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Cosa c’è in cantiere? |
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C’è in me una voglia di rottura, nel senso di fare qualcos’altro, per esempio ho in mente una storia ambientata nel XVIII secolo, però è molto costosa. |
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