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Esce mercoledi 28 maggio in 340 copie, distribuito da Lucky Red, "Il divo", quarto lungometraggio di Paolo Sorrentino, reduce dal trionfo del Festival di Cannes dove ha vinto il Premio della Giuria. Di ritorno dalla Costa Azzurra, il regista napoletano incontra la stampa romana e parla del suo modo di raccontare una storia che non ha nulla di ordinario, a cominciare dal suo protagonista: il "divo", il senatore a vita, più volte Presidente del Consiglio e ministro, Giulio Andreotti, splendidamente interpretato da Toni Servillo. |
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Che reazione ti aspetti dal pubblico, che tipo di polemiche? |
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Non avendo il film una vocazione scandalistica mi auguro che non ci siano le polemiche, ma non sono così ingenuo da credere che avverrà. Dato che è un film che cerca anche di mettere in evidenza i guasti del teatrino della politica spero che col film non si ripeta un teatrino, che si impari la lezione da un film che la mette molto bene in chiaro, per questo c’è un’insistenza con tutti gli uomini della corrente dove si parla anche di cose molto specifiche che hanno apparentemente poco interesse drammaturgico. Era tutto finalizzato a mettere in evidenza come, per molti anni e anche oggi, la politica ha una autoreferenzialità esasperata, che nel mondo della politica è grave, perché è tutto tempo tolto al vero compito del deputato.
Mi auguro che si valuti il film in quanto film, preferirei si accendessero polemiche sul film che polemiche politiche, che invece sono già cominciate, anche con dietrologie di bassa lega. |
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In queste 48 ore ti ha chiamato Andreotti o qualcuno di riconducibile a lui? |
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No, non mi ha chiamato. Non ha il mio numero… |
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E’ presente un discorso molto alto, su bene e male, menzogna e verità. Il film non è né troppo morbido né troppo duro, prova ad essere più complesso. E’ così? |
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Nella sostanza il film si mette a traino del personaggio; dato che il personaggio è deliberatamente ambiguo, e per anni non ha fatto altro che alimentare l’ambiguità nei suoi confronti perché probabilmente riteneva che fosse una strategia utile per il mantenimento del successo, il film gli va dietro. Di fronte ad un personaggio ambiguo il film conserva una sua ambiguità, tranne in una scena (quella del monologo, dove Servillo recita totalmente al di fuori dal registro che tiene in tutto il film) in cui mi sembra sia abbastanza chiaro quel che penso tra verità e menzogna.
Dato che la posta in gioco era alta, l’argomento ambizioso, mi sembrava giusto ad un certo punto fermarsi e provare una mia ipotesi di interpretazione, perché sta diventando un po’ troppo facile da parte di molti registi dire “no, ma io non prendo posizione”. |
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I giovani che vedranno questo film… |
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La mia speranza è che lo vedano i giovani, molti di quelli di una certa età conoscono bene le cose; il film non vuole rivelare delle cose, piuttosto si limita a sistematizzarle e a raccontarle in maniera più ordinata, meno frammentaria, e a rispolverare un’attenzione verso cose che sono state dimenticate. Però il film è molto diretto ai giovani, ha un impianto stilistico che va in quella direzione, c’è un tentativo ostinato di spettacolarizzare ciò che non può essere spettacolo, perché è abbastanza arduo provare a credere che la D.C. possa essere qualcosa di spettacolare, è qualcosa di anticinematografico… |
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La prima parte del film descrive la cricca di Andreotti coniugata a un aiuto musicale molto alto, la seconda parte invece cade nel discorso dei processi, della mafia, e il rigore stilistico prende il sopravvento. Servillo, inizialmente una specie di Nosferatu, diventa un po’ più umano. Come sono state incollate queste due parti? |
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Il film ha due registri diversi ma che secondo me si sposano, perché a un certo punto la storia cambia. All’inizio c’è una iconografia del potere che io vedo, come penso un po’ tutti, come una cosa a sé stante, misteriosa, irraggiungibile, almeno per quelli che non sono interni al palazzo. La fruizione estetica su quella prima parte trova maggiori appigli e anche il personaggio si caratterizza per l’immobilismo, per la sua grande capacità di tenere fermo tutto, di fare passi minimi. C’è una messa in scena dell’istitutizionalizzazione del potere. Poi le cose cambiano perché per la prima volta qualcuno costringe Andreotti ad abbandonare questo immobilismo; nel momento in cui viene tirato dentro per mafia, proprio quando pensava che invece poteva durare a vita questo immobilismo, dovendo lui entrare nella realtà delle cose e sporcarsi le mani anche il film entra nella realtà e si asciuga nell’aspetto più estetico. E’ uno stile che va di pari passo con la trama del film. |
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Con chi hai parlato, oltre ad Andreotti? |
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Ho parlato con Pomicino, molte cose me le ha dette lui, mi ha descritto la mondanità di Andreotti e avrei potuto parlarne molto di più ma per ragioni di spazi narrativi molte scene non sono entrate. Degli altri non so se vogliono che si sappia, quindi non faccio nomi. |
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La scena del racconto del pentito del bacio di Riina ad Andreotti: hai scelto da subito di farla vedere? |
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Forse è la ragione principale per cui ho fatto il film… |
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Per il futuro, hai intenzione di rimanere ancorato a “cose della realtà” o hai voglia di evadere? |
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Io veramente penso che i film che ho fatto sono molto reali, anche troppo, poi dentro uno ci mette una forma per cui sembra che si giochi su altri registri, il grottesco… Ma i personaggi sono molto rappresentativi, in maniera quasi banale, della società italiana: ho fatto un calciatore, un cantante di musica leggera, un politico: sotto questo aspetto non saprei fare un film di fantascienza tout court. |
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Parlaci della colonna sonora, con musiche usate spesso a contrasto, che passa da Vivaldi a Renato Zero: |
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Fin dall’inizio l’idea era quella di usare molto la musica rock, nelle prime stesure era molto più utilizzata. Poi c’è venuto il dubbio che il film stesse diventando una specie di esibizione da deejay e abbiamo ridotto, trovando nella musica classica un buon contrappunto. Sostanzialmente la dimensione polverosa e statica di un uomo anziano e di un mondo un po’ fermo, con relazioni molto specifiche, faceva sì che la musica potesse essere un elemento che invece lavorava contro, e in questo senso è stata utilizzata. L’idea schematica che usavamo per parlare del film era “un’opera rock su Andreotti”. |
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Cannes ha apprezzato film il cui filo conduttore è uno scenario italiano abbastanza degradante, non trovi paradossale che il cinema italiano, di altissimo valore, guardi una realtà assurda, quasi balorda? |
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Non esiste un buon film che non tratti temi critici. L’unico che può mettere d’accordo è Frank Capra… Sulla stampa hanno scritto, correttamente, di questo equivoco: alcuni credono che un film possa essere un depliant turistico, ma il cinema non è deputato a questa funzione. Quest’atto d’accusa si ripete da quando hanno inventato il cinema: i film buoni sono quelli che pongono una riflessione, un ragionamento stilistico su qualcosa. |
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Andreotti è il tuo personaggio più oscuro, quasi horror… Come l’hai sviluppato in fase di scrittura? |
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Quando ho cominciato a scrivere ho pensato che bisognasse evitare di rappresentarlo come Nosferatu, un’idea piuttosto semplice. Quando sono andato a trovare Andreotti, tutte le persiane erano chiuse, ed era mattina; c’era una strana penombra, ho pensato che veramente si muovesse in luoghi di penombra, e visto come cammina scivolando… assume una strana connotazione, un po’ misteriosa. Se c’è stato un virare verso un personaggio “horror” è perché, in qualche maniera, questo è riscontrabile, guardando Andreotti. L’obiettivo comunque non era di fare un film horror, anche perché non ho i riferimenti giusti: mi fanno paura, non ne ho quasi mai visti. |
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Perché il titolo “Il divo”, che sembra qualcosa di spettacolare, a livello cinematografico? |
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Il divo è un soprannome che, se non sbaglio, gli ha dato Pecorelli, e ha un duplice significato: allude sia a questa verve mondana sia, in qualche maniera, c’è un’associazione con una natura in qualche modo divina. |
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Sei la prima persona che ha fatto infuriare pubblicamente Andreotti, hai toccato un nervo o più di uno. Hai ottenuto quello che volevi? |
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Io non volevo pungolare o far arrabbiare, non è che sono contento perché c’è stata una reazione stizzita. Sono contento che c’è una reazione perché è confortante, il cinema è ancora, tra i vari strumenti di comunicazione, quello che più di tutti riesce a lavorare sulle emozioni prima che sulle informazioni. |
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