Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

News: In dipartita di Jacques Derrida

In dipartita di Jacques Derrida In dipartita di Jacques Derrida
Venerdì 1 Luglio 2005
a cura di Vaniel Maestosi
"Non vi sarebbe alcun nome unico, fosse anche il nome dell'essere. Ed occorre pensarlo senza nostalgia, cioè fuori dal mito della lingua puramente materna o puramente paterna, della patria perduta del pensiero. Occorre, al contrario, affermarlo, nel senso in cui Nietzsche mette l'affermazione in gioco, con un certo riso e un certo passo di danza".
(in "La differance", da "Margini della filosofia" di J.Derrida)

Sabato 9 Ottobre i giornalisti cartaceo-televisivi-internetiani si sono obbligati a scandalizzare se stessi, profferendo, o scrivendo, un nome unico, proprio nome d'un essere, per di più per annunciare la sua dipartita, quantomai definitiva, dal mondo dei fatti e delle presenze.
Il nome di Jacque Derrida in bocca ad un giornalista suona oltremodo surreale, con una buona dose di comicità paradossale e involontaria.
La morte del filosofo francese annunciata dalla comunità giornalistica!!!
La gaffe comica è (palesemente?) evidente, dato che il defunto "eccellente" considerava la morte, l'assenza, come il non esprimibile della presenza, della quale la presenza non è che traccia; ha passato l'intero suo excursus di pensatore ha de-costruire, smantellare, i principi della filosofia occidentale (un misosofo, altro che filosofo), in più sbeffeggiava il giornalismo in genere con la celebre asserzione secondo cui "il giornalismo non informa sui fatti, o dei fatti, ma informa i fatti".
Il presidente Chirac ha, con deferenza, omaggiato "uno dei più grandi protagonisti della cultura contemporanea"...l'omaggio s'è realizzato a vuoto, visto che Derrida è stato convinto assertore della provenienza etimica del termine "cultura" dal latino "colo", da cui proviene anche "colonizzazione".
Cultura? Ma di quale colonizzazione si tratta?
Questo nostro irridere al buon lavoro "giornalaro", ricade nell'insolente "attacco gratuito"...un buon omaggio a Derrida, insomma, che esaltava il "gratuito" come "grazia" di un pensare che supera il teleologismo (il finalismo per cui il pensare, o il fare, ha come fine la verità, la puttana di nietzscheana memoria).
In diem mortis, di Derrida, nel linguaggio asfittico dell'inform-azione, non trapela che il nome e la categorizzazione istituzionale (filosofo), andando persi pensieri, parole, opere, rimanendo le omissioni.
Anche perchè l'opera di Derrida ha fama, essendo spesso non letta, di essere oscura e follemente contorta. Certo nella società del linguaggio piattamente nominale della compravendita, della riduzione a ricettario del pensare nelle aziende scolastiche, della finocchieria di chi anela entrare nell'utero della gran madre sociale, il de-pensiero derridiano non può che fastidiare ponendosi come germe de-costruttore delle radici stesse della civiltà occidentale, come gioco demolitorio delle categorie mentali che sono all'origine di quella deviazione, tutta occidentale, che Derrida nomina logocentrismo.
L'ombra di Nietzsche aleggia negli umori di tal opera demolitoria. Derrida, infatti, con Deleuze, Foucault, Klossowski, è stato uno dei propulsori di quella corrente di pensiero, polemica, provocatoria, oscura, che, negli anni '60, in Francia venne bollata come Nietzsche-renaissance. Da Nietzsche, il nostro, eredita un pensiero inteso come diagnosi clinica, smascheramento, delle illusioni castranti e gregarizzanti di una cultura.
Il pensiero si pone così come una pratica, una pratica di decostruzione progressiva dell'edificio della metafisica occidentale (appunto il pensiero derridiano viene semplicisticamente definito "decostruzione").
Si principia quindi con lo smascheramento della metafisica della presenza occidentale (da Platone a Heidegger per intenderci) come viziata dal logocentrismo, dalla devozione maniacale alla dea parola.
Ci si illude (in ogni momento, anche nella quotidianità) che le parole, ossia i desaussuriani significanti svelino all'istante il loro significato, un significato unico, inequivocabile, nel quale non è possibile ravvisare ambiguità alcuna.
Si crede ciecamente che i nostri pensieri (significati) siano espressi univocamente e definitivamente, tramite le parole, e che quindi il senso si dia in modo unitario, chiaro (basta ascoltare con attenzione qualsivoglia perlante per annusare questa boria logocentrica, meglio se politicanti o professionisti della chiacchiera).
Ma, collocandosi lungo la linea di fuga che da Nietszche passa per Freud, De Saussure e Lacan, Derrida ci viene a dire che, chi s'illude di dire ciò che pensa si canzona tre volte: in primis perchè si crede un io, crede che quello che pensa appartenga completamente alla coscienza razionale, mentre, Freud docet (e tutti sperimentiamo quotidianamente), i pensieri non sono altro che inconscio più o meno filtrato, quindi non appartengono completamente all'io; in secundis, perchè crede che quello che dice corrisponda a ciò che pensa, mentre, per citare Lacan, "il discorso non appartiene all'essere parlante", ossia il senso delle parole non risiede semplicemente nella loro letterarietà nazionale, ma si cela in un oltre di cui le parole non sono che un sintomo; dulcis in fundo, perchè s'illude che le parole possano comunicare ad un altro essere un pensiero (che non gli appartiene!), ossia che ci sia una corrispondenza stretta tra significante e significato.
Ma, al di là della voce, della chiacchiera, del linguaggio fonetico, è nello scritto che si può ravvisare quel fenomeno che sintetizza il processo del pensiero-linguaggio e che getta nel ridicolo la "deviatissima Trinità" dell'Io di cui si discorreva sopra: il fenomeno che Derrida nomina come Differance (neologismo da Difference, , come violenza applicata allo scritto, impronunciabile, come a voler, nel significante stesso, incidere il concetto di Differance).
Nel fenomeno della Differance s'iscrivono, cristallizzate, le due accezioni del termine "differire".
In primo luogo la Differance implica il "differire" del segno (della parola, del grafema) in quanto esso è sempre differente, disomogeneo a ciò che esso vuol significare e di cui prende il posto.
Perciò tra linguaggio (testo, discorso o gesto che sia) e l'essere (i significati, i "reali") c'è sempre una differenza, uno scarto, una disomogeneità incolmabile, mitigata soltanto dalla corrispondenza astratta della convenzione linguistica.
In secondo luogo la Differance, il "differire" in quanto rimandare, rinviare, mettere una distanza tra la cosa (il pensiero) e il segno che dovrebbe rappresentarla.
Ossia la "realtà" assente che il segno sembra designare, viene "differita", allontanata dal segno stesso nell'atto di designarla. Ogni qual volta si cristallizza un "reale" in "parola", "segno" o "linguaggio", la sostanzialità vivente del reale s'allontana, differita.
Per cui le parole, i segni, il linguaggio, non sono che "Tracce", di un reale-essere, assente, di cui baluginano "segni d'allusione"; d'un reale-essere che fa capolino dalle crepe del linguaggio ma che non è mai pienamente attingibile proprio perchè esso è disseminato nelle maglie del linguaggio.
I significati scivolano incessantemente sotto la catena significante e le parole, cristalline, cartesiane, si pro-pongono come sintomi di un'assenza, di un Altro, che ha a che fare con l'inconscio e con il deleuziano "impensato del pensiero".
Parafrasando il motto secondo cui "L'inconscio è strutturato come un linguaggio" si può dire che per Derrida "Il linguaggio è strutturato come un inconscio".
Si abbatte, in tal modo, tutta la metafisica della presenza occidentale, l'illusione per cui l'essere si rivela nel linguaggio, per cui l'essere e la verità (morale, estetica, economica, statale essa sia) sono pienamente attingibili dall'essere (copula mundi!) umano.
Si abbatte anche la vocazione, tutta umana, alla comunicazione, abrogando, con la cancellazione del soggetto d'enunciazione, il concetto di identità dell'uomo con se stesso e (ribatte ultimamente Derrida), quindi, di "responsabilità", rimarcando la "originaria" alterità dell'uomo rispetto al se stesso "istituzionalizzato" e "socializzato".
Occorre riguadagnare il "gioco" nietzscheano, svelandoci l'altro che siamo, in un baloccarsi con le identità plurime di energheia, che ci configurano come multiversum di potenze indicibili, alle quali si può alludere innescando la polisemia vertiginosa insita in ogni linguaggio.
Tali "depensamenti" derridiani hanno ripercussioni anche nell'ethos (campo che il nostro Derrida è andato approfondendo negli ultimi tempi).
E' la boria dell'identità, del "credersi un io", del credere che il proprio linguaggio istituzionale comunichi pensieri che ci appartengono, a scatenare (per Derrida) l'equivoco etero-fobico per cui gli umani si comunicano le proprie ferme identità per mezzo delle guerre e della violenza. Misconoscendo che siamo sempre "altro da noi", che "accadiamo" sempre in un altro luogo, in un incessante eterotopia, chiudendoci all'altro che siamo, quindi, abbiamo preclusa ogni accoglienza, curiosità ludica, con l'altro che è all'esterno di noi, sbarrando la strada al vivere plurivoco della derridiana "legge dell'ospitalità".
Siamo vissuti, siamo pensati, nel multiversum caosmico, mentre nell'universum linguistico dello sformato sociale, viviamo (come enti lavorativi), pensiamo (come macchine da guerra carrieristiche) e ci apparteniamo (come sonde occupanti sottosuoli petroliferi, e media circolatori di banconote denariali).
Salutiamo Derrida dal nostro bravo costruire (sfacchinando verità per il disfacimento del mondicino "pro-progresso"); salutiamo il misosofo disvelatore dell'assenza, il decostruttore dei costruttori, l'ultimo degno erede di Nietzsche tra di noi.
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