Esce venerdì l’ultimo film di un genio: Werner Herzog, il regista più smisurato del Novecento. Cinema e vita per lui sono la stessa cosa e da sempre per lui il nocciolo che connette i due mondi è quello del rapporto tra uomo e natura: selvaggia, inospitale, cattiva. Con "Grizzly Man" il cineasta realizza una pellicola in cui la vicenda di Timothy Treadwell assurge a emblema della sua poetica. Treadwell è un borderline, che ha passato sedici estati della sua vita in Alaska, macchina da presa accanto, a riprendere i grizzly. Una ossessione la sua, che lo ha portato fino a trovare la morte, insieme alla sua fidanzata Amie Huguenard, per mezzo di uno orso. Montando materiali girati da Treadwell con interviste a conoscenti e famigliari del naturalista, Herzog ottiene un film magnifico. Altamente morale, non include nella pellicola il sonoro degli ultimi strazianti attimi di Treadwell, registrati dalla macchina da presa caduta a terra.
Treadwell ha pagato con la vita il folle sogno di avvicinarsi alla natura: è morto per aver scientemente voluto oltrepassare i limiti imposti. Un grizzly non può essere "un amico" dell’uomo dicono la storia e il buon senso, Treadwell voleva dimostrare invece la possibilità contraria. Che sia riuscito o meno non importa, l’epica si nasconde anche nel fallimento, come sa bene Herzog. Il titanismo del regista è noto agli amanti del cinema: le folli imprese di "Fitzcarraldo", con un vero battello portato veramente sulle spalle da comparse e attori, le condizioni di ripresa disastrose di "Aguirre furore di Dio", le mitologiche liti con l’alter – ego Klaus Kinski stanno lì a definire il cineasta. La follia dei santi o quella dei dannati certo, il modo unico di vivere e produrre cinema. Del resto Herzog è il regista preferito di David Lynch, qualcosa dovrà pure significare... |
