Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

News: Venezia, con Porporati la smitizzazione della mafia

Venezia, con Porporati la smitizzazione della mafia Venezia, con Porporati la smitizzazione della mafia
Mercoledì 5 Settembre 2007
La mafia smitizzata, Cosa nostra riletta al rovescio rispetto alla consueta letteratura cinematografica alla 'Good Fellas'. Un mondo alternativo, parallelo allo Stato, nel quale a qualcuno capita di nascere e di crescere e dal quale si dissocia dopo che ne vive la brutalità fine a se stessa. E' questo che mette in evidenza il film di Andrea Porporati, "Il dolce e l'amaro", secondo italiano in concorso alla Mostra d'arte cinematografica di Venezia, dopo "Nessuna qualità agli eroi" di Paolo Franchi e in attesa della pellicola di Vincenzo Marra "L'Ora di punta".
Ma quello di Porporati, che del tema si è occupato già in passato sceneggiando alcune serie de 'La piovra', è prima ancora il racconto dell'evoluzione di un uomo, al centro della scena con il suo percorso interiore. Si tratta di Saro Scordia, interpretato da un convincente Luigi Lo Cascio, che guarda a Cosa Nostra come a qualcosa di importante, degna di rispetto e meritevole dell'aspirazione a farne parte. I primi passi della vita di Saro nel mondo criminale sono fatti di rapine, richieste di pizzo, donne e soldi, il tutto sotto l'egida del suo 'protettore', Gaetano Butera (Tony Gambino nel film). Il primo omicidio che Saro commette gli vale l'ingresso ufficiale, l'affiliazione alla mafia. Ma i conti iniziano ben presto a non tornare più. Innanzitutto c'è Ada (Donatella Finocchiaro), la donna che ama e che lo ricambia, ma che non vuole sposare un criminale. Quindi si allontana dalla Sicilia e raggiunge Torino, dove può esercitare la professione di insegnante.
Saro inizia a perdere determinazione e convinzione, comprende che i capi mafia non sono super uomini, ma farse grottesche. Il giovane, che vive il suo percorso di disillusione e allontanamento, intanto si è sposato e ha avuto due figli ma è Ada la donna che continua ad amare. Centrale è anche la figura del giudice impersonato da Fabrizio Gifuni, un giovane cresciuto nello stesso quartiere, ma che ha compiuto scelte di vita opposte.
"Non volevamo raccontare la mafia" spiega il regista, ma "raccontare la vita di una persona, le sue scelte e le conseguenze delle sue scelte". Nel film diverse sono le scene caratterizzate da un tono comico, che è stato "creato e voluto - chiarisce Porporati - non per ridicolizzare o per fare violenza ai personaggi, ma perché da quel tipo di vita spesso scaturiscono situazioni dove il comico non è altro che il tragico ridicolizzato". Un esempio su tutti la scena della rapina, compiuta in una banca del nord, dove c'è bisogno di un traduttore perché i rapinatori, che parlano in siciliano stretto, non riescono a farsi capire nelle loro richieste nemmeno con la pistola puntata.
Il protagonista, dunque, compie "una scelta che lo porta a confliggere con la natura umana e dunque ne emergono le contraddizioni" evidenzia Porporati. Lo Cascio sottolinea come "Saro crede di aderire al modello più giusto possibile. Perciò è poi disorientato e aggredibile totalmente da qualsiasi tipo di seduzione". Insomma "più che un film sulla mafia è un film su un personaggio. Un uomo qualunque, pur all'interno della mafia. Così l'identificazione da parte dello spettatore diventa più facile e immediata", chiarisce ancora il regista.
Da un punto di vista della ricerca narrativa, la fonte è rappresentata sicuramente da Lattuada. "Sentivamo con urgenza - confessa Porporati - la mancanza della ricerca narrativa dei film italiani di una volta. Negli ultimi anni è difficile comprendere che cosa è l'Italia di oggi e che cosa sono gli italiani: vanno ancora scoperti. Così abbiamo seguito il percorso del personaggio, per vedere dove ci avrebbe portato".
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