Il sipario si chiude, la terza edizione della Festa del cinema di Roma, pardon Festival Internazionale del film di Roma, si conclude oggi all’Auditorium con due Premi Marco Aurelio d’Oro di pari valore consegnati a “Resolution 819” di Giacomo Battiato (premio del pubblico) e all’afghano “Opium War” di Siddiq Barmak (giuria di critici). Premiate anche le interpretazioni di Donatella Finocchiaro per “Galantuomini” e Bogdan Stupka per “Serce na dloni”. Menzione speciale per "A corte do norte" di João Botelho e "Aide-toi et le ciel t'aidera" di François Dupeyron. I premi di Alice nella città vanno a “Magique!” di Philippe Muyl (categoria 8-12 anni) e a “Summer” di Kenneth Glenaan (13-17 anni).
E’ il giorno dei bilanci e dei ringraziamenti di politici e organizzatori. La frase, pronunciata dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi, è la solita: “La manifestazione ha avuto un notevole successo di critica e di pubblico”. La verità, o almeno ciò che più si avvicina a essa, è che questo Festival del Cinema di Roma è ancora work in progress e che i cambiamenti effettivi nel cambio di direzione (da Bettini a Rondi) e di amministrazione (da Veltroni ad Alemanno) non sono poi tanti. Il cambio da Festa a Festival, chiara espressione di rendere un evento più tecnico ed elitario – cosa non necessariamente deprecabile – doveva produrre come risultato primario quello di portare il livello del Concorso vicino a quello di Festival prestigiosi come Venezia e Cannes, per poi cercare di raggiungerli nel corso degli anni. La sensazione è che si sia ancora molto, troppo lontani da quei livelli. Roma è storicamente troppo legata al cinema per non meritare posizioni di eccellenza. L’impressione generale, invece, è che si continui a considerare quello appena concluso come un Festival di grande appeal ma di secondo piano. Certo, si potrebbe obiettare che l’organizzazione strutturale e artistica di Festival si costruisce nel tempo, ma questo non serve a smorzare la fame di cinema in chi sa che per questo evento sono stati impiegati 15 milioni di euro, appena 2 in meno della precedente Festa, tacciata di sprechi e arroganza.
Al pubblico e agli addetti ai lavori forse avrebbe fatto piacere una continuità nella crescita artistica e organizzativa - a prescindere dai cambiamenti politici - anziché assistere ai fiacchi cambiamenti visti quest’anno (più che altro le nomenclature) o alla ripetizione evitabile di errori come la gestione dei biglietti (chi era accredidato doveva scegliere tra visionare il film delle 9 o mettersi in fila alle biglietterie per prenotare un posto per incontri e proiezioni speciali) o degli incontri con i registi, ancora una volta confinati alla elegante ma poco capiente Sala Petrassi, spesso strapiena. L’unica vera nota di merito sembra essere quella relativa all’assegnazione più puntuale degli accrediti stampa, dati rapidamente e prima dell’inizio della vendita al pubblico dei biglietti. Una positiva riconferma ricade poi sulla sezione Extra, pardon Altro Cinema, che quest’anno ha regalato film interessanti e originali come “Man on Wire”, “Rembrandt's J'accuse”, “Chinese Coffee”, “Kill Gil Vol. 2 e 1/2” e ovviamente i due film sullo sfondo di Fabrizio De André: “Effedià - Sulla mia cattiva strada” e “Amore che vieni, Amore che vai”. Inefficace invece l’annunciata italianizzazione del Festival; i film nostrani degni di nota sono pochissimi, su tutti “Il passato è una terra straniera” di Daniele Vicari, “Galantuomini” di Edoardo Winspeare e “Si può fare” di Giulio Manfredonia.
Le ultime considerazioni sono riservate al pubblico, la parte vitale di un evento globale come una Festa cinematografica a Roma. Il pubblico ha risposto bene, ma non è stato trattato al meglio. Le scelte dubbie sono più di una: inserire un solo weekend negli undici giorni di Festival è un peccato; organizzare incontri con star del calibro di Al Pacino, Verdone e Servillo, Viggo Mortensen, Cimino o Cronenberg in sale da 700 posti è un peccato; non capire che i sottotitoli posizionati troppo in basso rispetto allo schermo non permettono a molti di vederli è un peccato, soprattutto considerato che in un Festival i film sono in lingua originale; rendere poco chiara la programmazione dei film, la spiegazione delle sezioni, dei premi e dei meccanismi dei Festival stesso è un peccato; non far capire chi abbia realmente vinto il premio come miglior film del Festival Internazionale del film di Roma, sospeso a metà tra il premio del pubblico (“Resolution 819”) e quello della critica (“Opium War”), è un peccato.
Il Festival del Cinema di Roma, nato già grande e giunto ormai alla terza consacratoria (almeno in teoria) edizione, non spicca ancora il volo. Prima o poi, però, dovrà succedere. Presto, si spera. |