Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

James Cameron Avatar, l'ultima frontiera

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a cura di Glauco Almonte
Ipocrisia o genialità, a seconda dello sguardo scelto: a quanto pare si può rendere omaggio alla natura e alla sua forza che le permette di resistere all’azione dell’uomo, esaltarne le forze primitive contro quelle più tecnologiche, utilizzando gli strumenti più sofisticati. La tecnica più elaborata al servizio del proprio contrario, un inno all’istinto ed alla capacità di adattamento (quindi all’evoluzione), alla resistenza contro un progresso nocivo che piega la natura ai propri scopi.

Il soggetto dell’operazione più costosa nella storia del cinema, con trecento milioni di dollari spesi per la realizzazione di un solo film, è James Cameron: “Avatar” esce nelle sale di tutto il mondo più di dieci anni dopo il suo ultimo film, “Titanic”, a sua volta film più costoso e, ancora per qualche settimana, maggior incasso di sempre. Quello del regista canadese è un vizio, iniziato quasi vent’anni fa quando, in coppia con Arnold Schwarzenegger, dopo i due “Terminator” spende oltre cento milioni di dollari per realizzare “True Lies”. Regista principalmente di fantascienza, e non di altissimo livello, Cameron sembra fare il salto di qualità con gli ultimi due film, continuando ad investire budget fantascientifici ma cambiando l’approccio al proprio lavoro produttivo ed artistico. “Titanic” non è solo una questione di soldi: un melodramma di scarso interesse trova nel viaggio e nell’affondamento del Titanic il suo luogo d’azione perfetto, con una ricostruzione impressionante fin nei dettagli dell’oggetto in movimento più grande mai costruito dall’uomo (parole sue) ed una tensione notevole figlia di un ritmo che, dall’impatto con l’iceberg al completo inabissamento, rompe con le convenzioni narrative senza salti temporali, lasciando che la durata sullo schermo sia la stessa della realtà. Il risultato sono 11 premi Oscar (su 14 candidature), la consacrazione di Leonardo Di Caprio quale icona sexy-romantica (ben prima che si dimostrasse un eccellente attore) e, soprattutto, le credenziali per potersi prendere una pausa e lavorare ad un progetto ancora più grande, con fiducia illimitata da parte di qualsiasi investitore.

Nel decennio successivo Cameron realizza alcuni documentari in 3-D, dapprima sperimentando, quindi perfezionando la sua tecnica: “Avatar” è girato in digitale e ad alta definizione 3-D, e se nei mesi precedenti sono usciti molti film di azione, animazione e horror in tre dimensioni, Cameron propone per la prima volta il 3-D in scene prive di quegli elementi, dove il pubblico è abituato a vedere solo attori interagire con la scenografia attorno a loro. L’effetto è a tratti straniante, perché l’abitudine dello spettatore è dura a morire e la sensazione è quella di rinunciare a qualcosa, sul piano recitativo, cui non saremmo disposti a rinunciare; ma la cosa più probabile è che si tratti solo di suggestione, di un nuovo modo di muovere gli occhi e mettere a fuoco lo schermo durante la visione di un film.
A differenza dei tanti titoli girati quasi esclusivamente per esaltare l’effetto tridimensionale, “Avatar” potrebbe tranquillamente farne a meno: ma la visione di questo film, prima ancora che un’esperienza dell’intelletto, è un’esperienza visiva straordinaria, e viverla in tre dimensioni aggiunge sicuramente qualcosa. Il resto lo fa la fantasia e il realismo del pianeta Pandora, che ha le stesse caratteristiche della Terra ma ognuna a suo modo differente.

L’altro aspetto fondamentale per cui “Avatar” si differenzia dal cinema “pre-Avatar” è ciò che dà il titolo al film, ovvero la sostituzione degli uomini con degli avatar, corpi creati in laboratorio a somiglianza degli abitanti del pianeta e, tramite una tecnologia in stile “Matrix”, controllati a distanza dagli umani. Ciò che lo spettatore vede è dunque un lavoro di computer, che inizia con l’attore che recita e lo trasforma, aggiungendo qualche elemento (le orecchie e la coda) ma cercando di salvaguardarne movenze ed espressione. Questo aspetto ha fatto storcere il naso preventivamente a più di un cineasta, abituato a pensare ad un film come una costruzione al cui centro ci sia l’uomo, inteso come attore (di Roberto Faenza l’intervento con più risonanza, a questo proposito): se è naturale essere prevenuti, a priori, sarà altrettanto naturale abbassare le armi dopo aver visto “Avatar”; come primo, banalissimo elemento, basterebbe notare che una buona metà del tempo (quindi per una durata intera di un film medio) vediamo sullo schermo attori recitare come sempre. Nell’altra metà del tempo non assistiamo alla recitazione pura, ma nel risultato finale è ben visibile la mano umana solo in parte modificata al computer, senza dimenticare che questa tecnologia permette agli attori di recitare privi di trucco, facendoli rendere molto meglio rispetto a un qualsiasi “Batman” o “Pianeta delle scimmie”.

L’ultimo elemento che dovrebbe rassicurare tutti è l’intento di Cameron, che si esplica nel messaggio del film: al centro di tutto è proprio l’uomo, inteso come essere vivente. Se anche non è “nudo” di fronte alla telecamera nel fare il proprio lavoro di attore, l’uomo è stavolta “nudo” di fronte ad una tecnologia super-avanzata, a fare il proprio lavoro di essere vivente, ovvero sopravvivere. Quella di Cameron è una parabola vecchia come il mondo, l’io selvaggio ed istintuale che resiste e si dimostra capace di adattarsi, la natura che, attaccata dal progresso e dalla stupidità, non muore ma si rafforza.
Tanto è paradossale questo discorso fatto con i mezzi più avanzati, quanto il fatto che la dimostrazione di buona fede di Cameron sia anche il punto debole del film, insieme alla mancanza di originalità nel campo della fantascienza: è quasi ridicolo che tanto spiegamento di risorse e tante capacità siano alla fine al servizio di una storia come tante, ma soprattutto di una sceneggiatura che ricalca la più insignificante delle commedie americane, dove ogni cosa attesa accade nei tempi e nei modi previsti.
Meglio dunque rimanere affascinati davanti alla potenza del cinema – che è in primo luogo spettacolo e intrattenimento – senza soffermarsi troppo su quanto si potesse fare, ma non si è fatto. Non sarà “arte” nel senso in cui intendiamo il cinema d’autore, in particolare quello europeo, ma sono i soldi meglio spesi nell’ultra-centenaria storia del cinema, capaci allo stesso tempo di generare un guadagno enorme e di soddisfare centinaia di milioni di spettatori nel mondo, allo stesso prezzo che avrebbero pagato, poche migliaia di loro, per rimanere interdetti davanti ad opere auto-referenziali al punto da non tenere in considerazione l’aspetto più importante di tutto questo circo, lo spettatore.
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