Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Jacques Audiard Una luce nell'oscurità

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a cura di Glauco Almonte
Nel panorama del cinema francese contemporaneo, non particolarmente vario ma ben connotato in relazione al cinema europeo, in particolar modo quanto alla commedia, serve oscurare buona parte del campo visivo per individuare Jacques Audiard, una delle poche figure per cui valga la pena di parlare di autorialità senza pensare un solo momento alle leggi del mercato che regolano la produzione audiovisiva.
Messosi alle spalle vent’anni di apprendistato, nei quali lavora come sceneggiatore, Audiard esordisce alla regia appena superati i 40 con “Regardes les hommes tomber”, nel quale dirige un’icona quale Jean-Louis Trintignant ed un Mathieu Kassovitz non ancora affermato, invertendone i ruoli nel successivo “Un héros très discret” (miglior sceneggiatura a Cannes, mentre col primo vince 3 César per l’opera prima, per Kassovitz e per il montaggio). Sono però i film del nuovo decennio che lo consacrano presso il pubblico, per non parlare del successo internazionale: i suoi tre film raccolgono 20 César, premi a Berlino e ancora a Cannes – stavolta però è il Gran Premio della Giuria – e oltreoceano, con la candidatura ai Golden Globe e agli Oscar.
Audiard riesce a fondere la coscienza della realtà tipica del cinema emergente dell’Europa Orientale e di un certo cinema tedesco con la vitalità francese, che non chiude mai definitivamente la porta all’ottimismo senza nemmeno sposarlo del tutto – tranne le commedie d’esportazione di maggior successo. I suoi protagonisti non sono gli ultimi della scala sociale, ma sono distanti anni luce dai primi: eppure continuano a guardare verso l’alto. In ogni film l’evoluzione del protagonista maschile si gioca su due campi, uno sociale ed uno interiore: due campi che vanno in direzioni diverse, in un mondo che sembra permettere l’uno solo a scapito dell’altro, ma l’ottimismo di cui parlavamo è quello che mostra una strada, tra le tante, capace di conciliarli.
Non è un caso se i personaggi maschili continuano a seguire questa traccia comune all’interno di un cinema che cambia radicalmente nei suoi soggetti: comincia con “Sur mes lèvres” dove Vincent Cassel non è il protagonista, ma asseconda una straordinaria Emmanuelle Devos nei panni di una donna quasi sorda e ancor di più sola; ma mentre Cassel compie il suo percorso interiore, la Devos si limita a reagire alle circostanze. In “De battre mon coeur s’est arrêté” la figura femminile passa in secondo piano, anche se è voluta l’apparizione della stessa Devos in due scene, una all’inizio ed una alla fine del percorso interiore del protagonista Romain Duris.
E’ il film col quale Audiard inizia ad essere conosciuto bene anche in Italia, finalmente supportato da una distribuzione forte; gli estimatori iniziano a riconoscere alcune caratteristiche comuni a questi due film, eleggendo a cifra stilistica quello che più che altro sembra un vezzo, un modo di spezzare la narrazione spostando l’attenzione dalla storia al particolare, l’inquadratura di un solo elemento illuminato (debolmente, tra l’altro) mentre il resto dell’immagine è oscurata – la mano negra, lo chiama. Un particolare messo a fuoco, improvvisamente caricato di significati senza l’uso volgare dello zoom, ma solo della luce, un effetto costoso, dallo stesso Audiard definito quasi feticista. Gli altri elementi del suo cinema di cui magari si parla meno, ma che lo connotano come se non più della mano negra, sono un uso parsimonioso della colonna sonora, rendendola però protagonista nei rari momenti in cui la libera (e il discorso vale anche per “Tutti i battiti del mio cuore”, dove grande spazio ha invece la musica suonata da Tom o quella ascoltata in cuffia; è proprio in questo film che si nota maggiormente un intervento narrativo in fase di montaggio, con il taglio anzitempo di molte scene; mescola tutti gli elementi, infine, quando mantiene la stessa variando a più riprese il fuoco visivo e quello auditivo, tutti artifici per comunicare al di là della storia o della recitazione, per assumere (e soprattutto far assumere) un punto di vista all’improvviso, e dimenticarlo un attimo dopo.
Un Prophète” appare come la maturazione al termine di un percorso: nelle sue due ore e mezze di durata rinuncia paradossalmente a tutto quanto non sia essenziale, concedendosi come unico legame forte col passato la presenza di Niels Arestrup in un ruolo a suo modo simile a quello di “Tutti i battiti del mio cuore”, una figura paterna che il protagonista deve rinnegare per completare la sua evoluzione interiore. Spariscono le donne, passate in tre film da co-protagoniste a stimolo ad assenza, infine, della quale non sentono la mancanza; il suo ultimo protagonista è un ragazzo privo di tutto: istruzione, patria, famiglia, potere, libertà. Ognuna di queste mancanze è colmata da Malik (l’attore è Tahar Rahim, sconosciuto come la gran parte degli interpreti del “Profeta”) su due fronti, un’apparenza che lo aiuta a sopravvivere ed una sostanzialità sotterranea che gli permette di vivere, di vedere quella luce in fondo al tunnel di un presente apparentemente senza prospettive.
Audiard riesce a farci vedere la realtà nella sua crudezza, senza farcela odiare: i suoi racconti sono aperti, lasciando spazio alla speranza senza illudere; il suo cinema è arte e intrattenimento, esposizione senza manipolazione, al servizio della storia ma mai contro lo spettatore. Nel suo piccolo, fatto di un film ogni 3-4 anni, un profeta.
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