Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Andy Warhol Andy Warhol e il cinema

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a cura di Vaniel Maestosi
Andy Warhol dal 1963, unitosi al movimento underground, rivoluzionò il cinema tornando però paradossalmente alle sue origini tecniche.
Operando nella FACTORY, officina newyorkese di lavoro collettivo divenuta nel tempo più di un mito, ripercorse con moderne provocazioni le tappe della "invenzione" scientifica, riproponendo un cinema "primitivo", esasperato in inquadrature fisse, cinepresa statica, assenza completa di montaggio, pellicola muta e in bianco e nero, metraggio abnorme (sei ore per "Sleep", 1963; addirittura otto per "Empire", 1964).
Empire è un caso limite. Un’inquadratura fissa che cattura l’Empire State Building per otto ore, dalla sera alla mattina del giorno successivo. Azioni ripetute e dilatate nel tempo, riprese con una camera fissa. Con questo esperimento, Warhol voleva mostrare il contrasto tra tempo reale e tempo filmico; l’immobilismo dell'opera, ha il merito di raggiungere e illustrare una sorta di grado zero del linguaggio Cinema, appunto originario.
Citato come esempio di opera concettuale e filmato dal 44° piano del grattacielo Time-Life la notte del 25 luglio 1964 dal tramonto fino alle 2.30 di mattina, il film è l'esempio migliore di come l'idea di "durata" nell'opera di Warhol abbia prodotto un vero e proprio punto di rottura con la definizione classica di tempo cinematografico. Empire è come un quadro. La proiezione di Empire è come la presenza di un dipinto su una parete bianca. L'immaginario urbano è l'ennesimo esempio di come un film di Warhol possa raggiungere la pura forma di un oggetto, inespressivo per contrasto alle più tradizionali forme d'arte.
Anche alla parola sostituì l'eloquenza istintiva del corpo, dei suoi atti fisiologici e sessuali ("Kiss", "Eat" e "Blow Job", 1963; "Couch", 1964). Mentre ai divi della morta Hollywood, trasfigurati nelle sue serigrafie, ha opposto "cavie viventi" ribattezzandole ironicamente “Superstars”.
Ha fotografato i suoi personaggi impassibilmente negli atti quotidiani, anche intimi, procedendo in una nuova ricerca di montaggio, di piani-sequenza, ricreando con un metodo narrativo originale la nuova Hollywood domestica.
Dal 1965 Warhol inizia a produrre film sonori (con la tecnica del sync-sound, in cui il suono viene direttamente registrato sulla pellicola) e a colori, e per la sceneggiatura chiede aiuto a Roland Tavel, incaricato di scrivere tracce di "situazioni" in cui i personaggi possano muoversi improvvisando.
A Warhol interessa che nei film vengano mostrati "caratteri", "personalità", più che storie sviluppate con una narrativa lineare.
Tavel scrive la traccia per "Vinyl" (1965), un film tratto dal libro “A Clockwork Orange” di Anthony Burgess, che diventa il veicolo per lanciare il maggiore collaboratore di Warhol, Gerard Malanga.
La storia è quella di Victor, un giovane delinquente (interpretato da Malanga) che si oppone alle regole dei superiori. La scena del film, si svolge in un angolo della Factory dove lo spazio è claustrofobico e tutti gli attori hanno pochissima libertà di movimento. La cinepresa anche qui è fissa, anche se ci sono tre cambiamenti di angolazione della macchina da presa, uno dei quali causato da uno scivolamento inaspettato.
Fuori scena Tavel annuncia i titoli: "Victor è interpretato da…" ecc., su suggerimento di Warhol che aveva consigliato di elencare i titoli a voce quando l'azione del film sembrava calmarsi.
Ed ecco che durante le riprese fa la sua prima comparsa Edie Sedgwick, indiscutibile musa ispiratrice di gran parte delle opere di Warhol, seduta sul baule argentato della Factory la Superstar cambia spesso posizione, fuma una sigaretta dietro l'altra, si lima le unghie seguendo i suoi pensieri, completamente assente dalla dinamica del film.
"My Hustler" (1965), "The Chelsea Girls" (1966), "The Nude Restaurant" (1967), "Lonesome Cowboys" e "Blue Movie" (1968) invece provocarono shock, non tanto per la novità del "punto di vista", ma per quello che mostravano (soprattutto eloquenti scene sessuali); questo portò a una svolta commerciale tutto quel cinema nato sotterraneo ed esploso alla luce dello scandalo.
Di tale svolta si fece animatore, per conto di Warhol e della Factory ormai tramutata in vera e propria industria, il regista Paul Morrissey, che con una trilogia dai titoli secchi ("Fles", 1968; "Tras", 1970; "Heat", 1972) incorporò la crudezza in un discorso quasi hollywoodiano, e coi due ultimi film (tradotti "I rifiuti di New York" e "Calore") riuscì ad arrivare anche in Italia.
Questa attività incessante di fabbricazioni visive, ripetute ossessivamente, costituì la spietata ma sempre ironica accusa che Warhol-cineasta lanciò contro la vita contemporanea, contro quella "sua" New York sempre più esasperata da divismo e consumismo.