Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Ruoli e mestieri nel cinema Astronauti

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a cura di Flavia D'Angelo
L'ultimo film di Christopher Nolan, da poco nelle sale italiane, è già destinato a dividere critica e pubblico. “Interstellar” è il primo film dichiaratamente di fantascienza del regista, la cui filmografia ruota quasi interamente intorno alla scoperta della parte più oscura della psiche umana e si contraddistingue per la contaminazione del thriller con il genere fantastico. Nel film il protagonista Cooper (Matthew McConaughey) è costretto ad accettare una missione spaziale: le possibilità di sopravvivenza dell'umanità sul pianeta Terra sono arrivate al limite ed è necessario trovare una nuova casa per il genere umano. Per il suo esordio nel genere fantascientifico Nolan sceglie quindi un protagonista che incarna la figura più tradizionale del genere, l'astronauta-esploratore. Si potrebbe, anzi, dire che la scelta è obbligata perché può esistere fantascienza senza lo spazio ma non senza l'esploratore spaziale.

La figura dell'astronauta è diventata identificativa di un genere e iconica per la cultura post-moderna. Forse proprio per la sua genesi più recente rispetto alle altre professioni utilizzate nel racconto cinematografico, la figura dell'astronauta si presenta meno sfaccettata rispetto alle altre. Tenteremo insieme di individuare le caratteristiche imprescindibili e le sottili, ma significative, sfumature connesse a questo ruolo cinematografico e alla scrittura dei personaggi che lo interpretano. Bisogna sempre tenere a mente che l'astronauta è il “nuovo cowboy” dell'era contemporanea: non è un teorico, ma è “colui che fa”, cioè il rappresentante del gruppo che lo ha scelto per la missione, colui che agisce in nome e per conto della più grande umanità affrontando in sua vece i percoli dello spazio sterminato. L'astronauta ha, quindi, una duplice identificazione: è l'eroe solitario che deve affrontare un destino pericoloso contando sulle sue forze ma la sua spinta è di tipo morale, in quanto rappresenta l'intera umanità. La missione spaziale, infatti, ha sempre due e solo due motivazioni: la sete di conoscenza, connessa alla natura stessa dell'uomo, o la necessità di garantirsi la sopravvivenza: il viaggio nello spazio deve avere un imperativo morale e l'astronauta ne è l'interprete.

Si possono identificare tre tipi di viaggiatori del cosmo cinematografici in base alla motivazione che li ha personalmente spinti a intraprendere la missione spaziale: l'astronauta che sente la missione come un dovere morale nei confronti dell'Umanità, l'avventuriero per cui il Pianeta Blu è troppo piccolo per la sua ansia di scoperta, e l'esploratore solitario che cerca nello Spazio le risposte che non riesce a trovare dentro se stesso. A partire da queste motivazioni prevalenti del personaggio si sviluppano varie contaminazioni e i percorsi esistenziali dei protagonisti divergono spesso dalle premesse di partenza.

Esempio grandioso del primo tipo di astronauta è l'equipaggio dell'Icarus II di “Sunshine”, film del 2006 di Danny Boyle, e del suo membro Robert Capa (Cillian Murphy). La missione della nave spaziale è evitare l'estinzione della vita sulla Terra provocando un'esplosione nucleare sul Sole, rimediando al misterioso fallimento della precedente missione. Soli davanti al Cosmo, gli astronauti di Sunshine si troveranno di fronte a una serie di scelte progressivamente più difficili e a guidarli non è più l'istinto di sopravvivenza né il senso del dovere: senza più comunicazioni con la base terrestre, gli astronauti devono distillare dalla loro morale l'essenziale. La solitudine dell'eroe, che sia presentata nelle prime immagini del film o che sia l'esito finale della sua avventura, è un elemento chiave della costruzione del personaggio dell'astronauta: attraverso la distanza dalla socialità si rafforza la percezione dell'appartenenza alla razza umana. Senza affrontare la filmografia centrata sull'incontro con gli extraterrestri, e limitandoci quindi a quella che ha come tema prevalente il viaggio spaziale, non è il confronto con “l'altro” ma l'impatto con il “nulla” che fa scaturire la potenza drammatica del personaggio.

La dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) vive in “Gravity” (Alfonso Cuaron, 2013) l'esperienza più devastante che la mente umana possa sperimentare: percepire la sua stessa assenza. Le pellicole che hanno sfruttato la solitudine dell'astronauta hanno proiettato il protagonista in una dimensione lontana, nello spazio o nel tempo, dalla sua casa e dai suoi affetti. Ryan Stone, persi i contatti con la base terrestre a causa di un incidente nel corso di una missione di routine, resta in orbita intorno alla Terra e ne può ascoltare i segnali radio comuni: suoni, musiche e parole di un mondo che vede ma dal quale è irrimediabilmente “fuori”. La sua lotta per la sopravvivenza è resa ancora più struggente dal desiderio di tornare a far parte di quel mondo dal quale, per motivi personali, si era voluta allontanare: non è la paura della morte ma la contemplazione della solitudine il motore che spinge al cambiamento il protagonista.

Parodia e insieme omaggio al secondo tipo di astronauta, l'esploratore-avventuriero, è il delizioso Buzz Lightyear di “Toy Story” (John Lasseter, 1995). Ridicolmente consapevole del suo essere “eroe”, Buzz è un giocattolo per i bambini moderno e super-accessoriato e, per questo, ambisce a volare “verso l'infinito ed oltre”. Incurante dei pericoli, che affronta con indomito spirito americano, Buzz non ha altra frontiera che non sia lo spazio infinito, anche se deve accontentarsi più prosaicamente della sua identità di giocattolo. Parenti stretti dell'astronauta Buzz sono i componenti dell'equipaggio dell'Apollo 13 (“Apollo 13” di Ron Howard, 1995): Lovell, Swigert e Haise, persi in orbita per un guasto tecnico, non si lasciano sopraffare dalla paura ma collaborano con il centro di controllo della NASA per garantirsi un sicuro rientro a casa. Formato da esploratori innamorati dello Spazio, l'equipaggio dell'Apollo conosce bene i rischi a cui la loro passione li espone: nessun astronauta, mai, teme lo Spazio in se stesso. L'ambiente è ostile, impedisce perfino la vita, ma non è mai maligno: il pericolo è sempre quello che si porta con sé, dall'errore di calcolo al compagno che rivela all'improvviso un lato oscuro. Emblematico di questa vera e propria regola del genere è il finale de “Il Pianeta delle Scimmie” (Frankin J. Schaffer, 1968): l'astronauta Taylor – al comando nelle prime scene del film dell'Icarus I – scopre a sue spese l'ineluttabilità di questa regola.

Ci sono, ovviamente, variazioni sul tema. “The Astronaut's Wife” (Randy Ravich, 1999), film poco apprezzato da critica e pubblico, affronta un tema difficile nell'ambito del genere fantascientifico: il timore dell'Altrove riportato sul nostro pianeta da chi ha attraversato lo Spazio. Lo Spazio profondo ha un impatto su chi lo ha vissuto: cosa comporterà questa esperienza quando si torna alla normale vita quotidiana? Il film, purtroppo, gioca poco con l'ambiguità e fornisce una spiegazione extra-scientifica che salva la figura eroica dell'astronauta rinunciando a metterla in discussione. Il pericolo, comunque, si annida in noi o – nel migliore del casi – nei nostri compagni umani. Sam Bell (Sam Rockwell) è un solitario operaio dello spazio prossimo al rientro a casa in “Moon” di Duncan Jones (2009). Le comunicazioni con la Terra sono disturbate e Sam, sempre più solo, inizia a perdere la percezione del reale. Il pericolo è dentro di lui? Quando ci si sente minacciati in un luogo dove non c'è vita, chi è che ci minaccia?

Anche in “Solaris” (Steven Soderbergh, 2002) l'interazione con lo Spazio non fa altro che portare alla luce i propri fantasmi repressi. Uno degli elementi portanti del genere è, infatti, che qualsiasi cosa nascosta sarà portata alla luce prima della fine della missione: niente si può nascondere in un processo di purificazione che miete sempre un cospicuo numero di vittime. Se nel remake di Soderbergh l'inadeguatezza dell'uomo è un dato emotivo, nel grandioso originale di Tarkovskji (“Solaris”, 1979) a essere messi alla prova sono i limiti della mente umana: si chiede alla specie, e non all'individuo, di fare un balzo in avanti. Kris Kelvin (Donatas Banionis) fa parte della schiera degli astronauti del “terzo tipo”: coloro i quali cercano nell'Altrove le risposte alle domande che tormentano la loro esistenza terrestre. Capostipite letterario del genere potrebbe essere considerato Astolfo che, nell'Orlando Furioso, viaggia fin sulla Luna per ritrovare il senno perduto dell'amico Orlando. Quale che sia la motivazione della missione, i viaggiatori spaziali di questo tipo cercano risposte a interrogativi personali: è quasi paradigmatico trovare in missione protagonisti che hanno subito un lutto grave e trasformano l'avventura cosmica in un mezzo di salvezza personale. Le contaminazioni non mancano, come insegna la dottoressa Stone di “Gravity”, e forse non è un caso che sia un'altra donna, la dottoressa Alloway (Jodie Foster) il rappresentante più famoso di questo genere di astronauta. In “Contact” (Robert Zemeckis, 1997) la protagonista si ritrova ad essere l'unica candidata per un viaggio inter-dimensionale alla ricerca di nuove forme di vita. Anche se non è un'astronauta per formazione, Alloway incarna perfettamente il desiderio dell'eroe di (ri)trovare oltre questa Terra le risposte e le persone che ci mancano.

Banale ma vero, “2001 – Odissea nello Spazio” (Stanley Kubrick, 1968) rimane uno dei migliori film di fantascienza di tutti i tempi, riuscendo a racchiudere in sé tutti gli elementi del genere e presentando la più sfaccettata figura di astronauta cinematografico proposta finora. Se è ormai cosa certa che la fantascienza ci proietta in un futuro e in uno spazio lontani per raccontarci il presente, “2001 – Odissea nello Spazio” contiene passato, presente e futuro in un unica traccia ma anche tutte le possibili interpretazioni del ruolo dell'astronauta. Bowman (Keir Dullea) è chiamato a compiere la sua missione per soccorrere i suoi colleghi dispersi, ma la accetta per un innato bisogno di conoscenza. Il suo incarico lo espone a pericoli che ha portato insieme a sé dalla Terra, come vuole la tradizione del genere. L'elemento più iconico del film però, è la conclusione del viaggio di Bowman: non un approdo alieno bensì un itinerario – in parte incomprensibile alla mente umana – dentro di sé. Nella più totale solitudine l'astronauta non scopre la profondità della sua appartenenza al genere umano ma grandiosamente se ne distacca. Un finale splendido e atroce, ancora non eguagliato da nessun altra pellicola successiva. Molti astronauti-eroi della cinematografia successiva non torneranno a casa, sacrificando se stessi per il bene comune o per la loro sete di conoscenza, ma nessun regista ha mai più spinto così in là il limite, cancellando implicitamente l'identificazione dell'astronauta con l'eroe moderno.