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Pier Paolo Pasolini PPP: Teorema di una vita

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a cura di Vaniel Maestosi
Sono passati trent’anni da quella lurida notte del 1 novembre 1975 che ha messo al centro della scena un assassinio dalle coincidenze impeccabili: quasi fosse già tutto scritto dentro un destino, dentro una “parabola esemplare”, la parabola di una morte teorizzata, profetizzata, preparata.
Lo choc di quel debole poetico corpo oltraggiato nella livida alba dell’Idroscalo di Ostia, si prolunga ancora sul presente, rendendo il poeta un mito violentemente significante.
Con una potenza reale Pasolini s’incastra nella cultura italiana del secolo, spesso morbida, flaccida, di servizio. Lui, poeta e uomo di coraggio e paure, citato fino alla saturazione, ma non sempre letto e compreso. Spesso ridicolizzato da proclami, accostamenti, sino alle moderne insinuazioni, perverso più di grande.
Mentre nello schermo di Pasolini è il dolore più profondo a filtrare le immagini, gli scritti, le opere. Quel dolore che diventa coscienza profonda di sé e degli altri, della cultura e della creazione artistica. Incompreso perché capace di comprendere.
La sua è stata un’opera-vita, una cometa dissolta ed esplosa in una cascata intermittente. Un simbolo moderno, nella disperata e incessante provocazione del tempo. Un volto e uno stile continuamente cambianti, adolescente e maestro, dalla campagna friulana al degrado degli anni Settanta in cui precipita il volto della giovinezza e subentrano i dubbi del pensatore.
Oggi avrebbe ottantatré anni e sarebbe ancora capace di divorare la vita, come egli stesso scriveva…“io divoro, divoro, divoro…come finirà non lo so”.
La coscienza del rischio e del pericolo che esso contiene, sorretto solo dalla forza della mente, sempre attiva e pronta alla denuncia, all’intuizione di un’epoca che falliva e miseramente gettava nel panico l’umanità, la vera spiritualità in pasto al capitalismo, alla capacità di annullare con un televisore identità e rispettive individualità. Persone come loghi, incontri come scambi. Futuri senza immagini.
Non per Pasolini. Lui capace di attraversare tutti i linguaggi, romanziere e poeta, saggista e regista, critico e filosofo e nel contempo abbattere le ore, l’impossibilità. Fare per non subire il tempo, svelare continuamente la scintilla dell’idea per non sentire l’aridità del reale. Le sue parole potrebbero ancora incidere sulla società contemporanea, ancora danzano con i preziosi furori e disagi della giovinezza di ognuno di noi…“Soltanto a vent’anni – scrive nel 1963 Pasolini a Elio Fiore - la disperazione è così mescolata con la felicità, il pudore con l’incontinenza”.
Ha ragione Benigni quando dice che oggi abbiamo bisogno di poesia, di poeti, di delicatezza, sicuramente avremmo bisogno di Pasolini, di un intellettuale senza difese, forte come sono i poeti, con l’autentica e tragica “passione” al di là dei confini della letteratura, dell’analisi e spesso di una realtà davvero castrante.
Pasolini sarà sempre un inimitabile maestro. Trasgressivo ma ossessionato dall’ordine e dalla tradizione, divoratore di vita ma divorato dalla sua durezza.
Come il titolo del suo ultimo, pubblicato postumo, romanzo “Petrolio”, intuizione-metafora capace di profetizzare la nostra attuale epoca di catrame, apparenza e dissolvenza immediata.
Lo ricordiamo adesso, nel profondo rispetto della sua sofferenza che non può passare invano come un semplice lampo. Il suo messaggio più puro era per il nostro “Presente”; per noi ha gridato “un miglior Futuro” prima, già da lunghi trent’anni, di volare via.
Restano, immortali al genere umano, le innumerevoli parole, “le sudate carte”, la vita e l’arte di un genio.
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