Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Fratelli Dardenne La possibilità in fondo alla strada

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a cura di Glauco Almonte
Se c’è qualcosa che collega tutti i film dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, è il successo a Cannes. E’ paradossale dirlo a proposito di due autori tanto riconoscibili, ma il quinto premio alla quinta partecipazione sulla Croisette (già due Palme d’oro nel loro Palmares) non è l’ennesimo indizio, ma una certezza: ai francesi e agli americani, i fratelli belgi piacciono assai. Gli organizzatori del festival più importante del mondo dopo aver visto “La promesse” hanno deciso di invitare i due cineasti vita natural durante: scelta assecondata dalle giurie susseguitesi in questi tredici anni, guidate in quattro occasioni su cinque da americani (di nascita o di passaporto cinematografico): David Cronenberg, David Lynch, Sean Penn e Robert De Niro.
E’ poco più che una coincidenza, ma è comunque sintomatica la tendenza americana – seppur con personaggi molto particolari, e non è da meno il quinto presidente Emir Kusturica – per un cinema profondamente europeo, con uno stile estremamente personale. Un cinema che da “La promesse” in poi può sembrare sempre uguale a se stesso, ma complice la distanza pluriennale tra un film e l’altro ha in realtà rappresentato una seppur lenta evoluzione dai documentari degli albori verso una struttura in cui quasi affiora la finzione cinematografica. Punto di partenza sono la realtà e una macchina da presa (e un punto di vista, ovviamente): la messa in scena è solo un necessario alter ego della realtà, e così non ci sono attori che recitano, ma persone che agiscono e attorno alle quali Jean-Pierre e Luc si muovono per decifrarne le azioni e, a monte, le intenzioni. Quella che raccontano è una realtà marginale, intesa come racconti di persone ai margini della società, ma anche di microcosmi marginali rispetto alle grandi città: bastano i loro protagonisti per raccontare le storie, il Mondo può restare fuori. Piccoli criminali, sfruttati, giovani incapaci di accettare responsabilità più grandi di loro: nelle poche strade dei paesini belgi e nei boschi fuori città si consumano piccoli drammi invisibili, qualcosa si rompe dentro qualcuno, il tempo scorre ad ogni scena e in ogni vita inesorabilmente.
E’ solo dopo la seconda Palma d’oro che i due fratelli aprono uno spiraglio a un’idea più tradizionale di cinema: un intreccio, una sceneggiatura meno descrittiva e con più attenzione al dialogo, una città più grande che rappresenta maggiori possibilità, meno determinismo e quindi, per coerenza, uno spiraglio di ottimismo in più. E addirittura attori famosi (Cécile De France co-protagonista nel “Ragazzo con la bicicletta”) e un accenno – è proprio il caso di usare la formula “udite, udite” – di colonna sonora: sono pochi secondi che ritornano tre volte nel film, quasi fosse una voce fuori campo, un modo comune – in qualsiasi altro cinema – per raccontare un cambiamento interiore. E forse il cambiamento interiore c’è stato davvero, dentro Jean-Pierre e Luc: non è più il momento di far male allo spettatore, di chiedergli di uscire dalla sala con una nuova angoscia addosso. Quella di Cyril non è una morte mancata ma una vera e propria resurrezione, uno sguardo gettato più in alto delle poche vie di paese e delle basse case dove vivere, in uno spazio senza margini chiamato possibilità.
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