Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Terrence Malick La filosofia come essenza della natura

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a cura di Vaniel Maestosi
Trovare una sua foto è un’impresa complessa. Alla notte degli Oscar del 1999, quando venne il momento di passare il filmato delle nomination alla regia, nella sequenza a lui dedicata apparve solo la sedia di regia con dietro scritto il suo nome: Terrence Malick. D’altronde era stato lui stesso a chiedere di inserire nel contratto per la direzione del film in concorso “La sottile linea rossa” la clausola che imponeva di non usare foto che lo ritraessero per l’inevitabile promozione dell’opera.
Solo tre film, in attesa del quarto imminente “The New World”, in trent’anni per entrare nella leggenda del cinema: a nessuno è mai bastato così poco per diventare il regista dei sogni di qualsiasi attore in attività. Al punto che quando è riemerso dal nulla nel 1995, dopo due decenni di un vuoto biografico quasi leggendario, la crema delle star maschili di Hollywood è corsa ad offrirsi, a cachet ridicoli per gli standard abituali, per un posto nel ‘nuovo’ film di Malick. Una di queste, Sean Penn, era addirittura vent’anni che aspettava quel momento, sin da quando aveva visto nel 1978 “I giorni del cielo” senza immaginare che sarebbero passati 20 anni!
Figlio di un geologo di origine libanese (il suo cognome in arabo ha un significato per certi aspetti premonitore: vuol dire ‘Re’) e di una donna di origine irlandese, Terrence Malick nasce nell’industriale e settentrionale Illinois ma cresce con i due fratelli più giovani a contatto con l’ambiente selvaggio e incontaminato del Sud, in Oklahoma e Texas, cominciando lì a maturare quella profonda considerazione e quell’intenso rispetto per la natura che, anni dopo, apparirà così evidente nelle sue opere cinematografiche. Nel 1969 traduce in inglese “Vom Wesen des Grundes” (l’Essenza della ragione) di Heidegger in un’edizione che vede la versione in tedesco sulla sinistra e quella tradotta sulla destra, per permettere al lettore bilingue di verificarne la correttezza. Una pratica, quella di mettere fra loro a confronto versioni e punti di vista, anche opposti, che egli non dimenticherà quando sarà ora di mettersi a girare film: nessuno è senza peccato nel mondo filosofico di Malick, nessuno può né deve sentirsi migliore di altri; può essere ed è solo lo spettatore a decidere quale tesi è giusto sposare, quale versione prendere per corretta, a quale opzione sentirsi vicino.
Lui destinato alla Filosofia, laureato ad Harvard con il massimo dei voti, incontra la settima arte: “Mi sono sempre piaciuti i film; e la cinematografia mi sembrò una carriera non molto più improbabile di qualsiasi altra potessi intraprendere”, avrebbe poi detto Malick in una delle rarissime interviste mai concesse, con la solita modestia sviluppata dal momento in cui si mise dietro la macchina da presa. Un paio di sceneggiature scritte per altri prima di decidere di cimentarsi direttamente con la regia per un lungometraggio ispirato alla vera storia degli omicidi commessi negli Stati Uniti dalla coppia Starkweather-Fugate alla fine degli anni '50: “Badlands”, assai meno efficacemente tradotto in italiano come “La rabbia giovane”.
Mentre scrivevo il film, mi ero anche preparato un kit di vendita con diapositive e registrazioni da presentare ai potenziali investitori”. Stranamente non servì: “Non ci fecero caso più di tanto. Decisero di investire sulla fiducia”. Usando una troupe di liberi professionisti per non incorrere in richieste di tempi e paghe sindacali e superando incidenti quali la distruzione delle macchine da presa durante la scena di un incendio, in un mese Malick portò a termine il film, che a quel punto aveva già trovato un acquirente: la Warner Bros, che lo comprò per un milione di dollari, tre volte quanto era costato. Il cinema cominciava a dare le prime soddisfazioni a Malick; soddisfazioni non solo economiche: "Badlands" fu acclamato come un capolavoro e, seppure gli incassi non furono proporzionali alla gloria, le porte di Hollywood si aprirono per il filosofo-regista. Cinque anni dopo, con alle spalle la forza degli ‘studio’, Malick dirige “I giorni del cielo”. Un film straordinario per atmosfere e qualità delle riprese, spesso definito il film a colori con la miglior fotografia mai uscito sugli schermi, lirico e impeccabile.
Terrence un giorno mi disse” ricorda Jack Fish, art director di Badlands, “che per lui fare cinema è come combattere una guerra: è lui contro il mondo. E’ come un soldato che lotta per ogni inquadratura”.
Dopo il cielo, il nulla. In Francia per oltre vent’anni, in attesa di riapparire illuminando con la linea rossa del suo confine. Ovvio che, quando riemerse dalla nebbia con un progetto di film “The Thin Red Line”, tratto da un romanzo di James Jones sulla sanguinosa conquista dell'isola di Guadalcanal avvenuta a partire dal 9 novembre 1942 da parte degli Americani contro i Giapponesi, l’establishment del cinema lo guardasse con diffidenza. Ma negli incontri preliminari con la Fox, Malick, fugò ogni dubbio dei vertici della casa di produzione mostrando una conoscenza dei più moderni meccanismi produttivi tanto approfondita quanto assolutamente inconsueta per chi per vent’anni non era stato dietro una macchina da presa. Un tempo che per lui sembrava non essere trascorso; erano infatti gli stessi di “Badlands” e “Days of Heaven” sia il perfezionismo che la cura dei dettagli, con le riprese fatte solo nelle ‘golden hours’, poco dopo l’alba e poco prima del tramonto, quando le luci danno profondità e calore come in nessun altro momento della giornata.
Era lo stesso di vent’anni prima il suo modo di ‘tirar fuori’ il meglio dai propri attori: “Dovevo impersonare un tenente colonnello in cerca di gloria che viene umiliato al telefono da campo da un superiore” ricorda Nick Nolte, “e tutto quello che Malick mi diceva era ‘Prendi una pausa’, ‘Guarda il fiume’ o ‘Facciamone un’altra’”. Avanti così per più di trenta ciak, fino a quando Nolte, esasperato e frustrato, tanto da dimenticarsi le battute, finalmente e “magicamente” diventa il personaggio pensato da Malick per quella scena: avvilito, depresso e abbattuto. Immutato era anche lo stile narrativo, con l’inserimento nel montaggio di dettagli solo apparentemente insignificanti e l’uso della voce fuori campo, che consente al personaggio di prendere distanza dall’azione filmica per intessere quasi una complicità con lo spettatore che matura così la sensazione di vedere un film con qualcuno che gli bisbiglia nell’orecchio le riflessioni più intime e profonde. Ma soprattutto era rimasta quella di un tempo la sua visione del mondo e della cattiveria, codardia, coraggio e debolezza ancestrale dell'essere umano. Un essere umano che, per quanto si ‘agiti’, è comunque e irrimediabilmente mortale: non a caso tutti i protagonisti maschili dei suoi film, Sheen in “Badlands”, Gere in “Days of Heaven” e Caviezel in “Thin Red Line” trovano morte prematura e violenta, uccisi ancora giovani e belli.
Mentre una Natura incontaminata e originaria guarda con pressoché totale indifferenza tutto questo disperato e insensato affannarsi: ecco allora gli uccelli e i fiumi che tagliano la prateria del Sud Dakota fare da sfondo agli omicidi in serie di Kit-Sheen, i campi di grano maturo battuti dal vento delle piane del Texas far da testimone all’intrigo assassino di Bill-Gere e la vegetazione prepotente e lussureggiante dell’isola tropicale di Guadalcanal ospitare gli scontri all’ultimo sangue fra gli assediati giapponesi e la compagnia C.
Il Cinema, settima e forse ultima arte, ha trovato e lo attende continuamente, il suo intimo, terribile, disperato filosofo.