Cinema del Silenzio - Rivista di Cinema

Fratelli Coen Ritorno al remake

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a cura di Giordano Rampazzi
La differenza fondamentale tra Joel e Ethan Coen è il percorso di studi. Joel opta per la scuola di cinema della New York University, mentre Ethan sceglie di laurearsi in Filosofia a Princeton. Quando si tratta di dare alla luce il loro primo film – “Blood simple” (1984) –, la separazione dei ruoli avviene quasi spontaneamente: Joel, che si era oltretutto dedicato al montaggio di alcuni film di serie-b, prende in mano la regia, Ethan sa di poter dare il massimo come sceneggiatore. Da lì in avanti i ruoli progressivamente si confondono. Il gioco delle parti lascia ben presto spazio a una simbiosi perfetta sia nelle vedute che nei tecnicismi, tanto che, ora come ora, è impossibile parlare di uno senza includere l’altro. Oramai sono un marchio di fabbrica, sono i Fratelli Coen.
Già dai primi film – “Blood simple” (1984), “Arizona Junior” (1987), “Crocevia della morte” (1990), “Barton Fink” (1991) – si capisce che i Coen stanno cercando di arricchire – in parte anche reinventando – il genere noir e quello della black comedy. Il grottesco assume un ruolo fondamentale nella maggior parte delle loro opere, insieme a una visione postmoderna e nichilistica della vita umana, non sempre facile da assimilare. Quello che si capisce subito, però, è che i fratelli Coen hanno una grande dote come narratori. La loro proposizione del nonsense e della contaminazione di generi ha un’incredibile efficacia; anche quando saltano gli schemi la coerenza narrativa appare impeccabile e particolarmente acuta.
I Coen si creano ben presto uno spazio tutto loro, pieno di libertà e ironia, una sorta di meta-cinema che ha al contempo grandi astrazioni e grandi esercizi di stile, mai convenzionali, sempre acrobatici. Il loro spirito retrò si fonde con gli eccessi di un cinema sempre e comunque misurato e calcolato.
Con “Mister Hula Hoop” (1994) arriva la prima grande produzione, con la Warner Bros. pronta a investire 25 milioni di dollari. E’ la svolta, i fratelli Coen conquistano il grande pubblico con una parabola surreale che sa di viaggio nel cinema degli anni ’50. I due registi di Minneapolis sono ora più sicuri dei propri mezzi, tanto da produrre nove film nei quindici anni successivi.
Con “Fargo” (1996) arriva il premio Oscar per la sceneggiatura e quello per l’interprete femminile Frances McDormand (moglie di Joel), si ritorna al presente e al noir semitradizionale, spettrale e algido proprio come l’isolamento della città di Fargo (Minnesota).
Con “Il grande Lebowski” (1998) si affina la narrazione del nonsense e l’analisi dell’agire collettivo, riprendendo lo spunto poliziesco e rilanciando la vena onirica, decisamente divertente ma anche leggermente leziosa.
Con “Fratello dove sei?” (2000) si “ritorna” all’evasione affrontata in “Arizona Junior” e soprattutto a quegli anni ’30 che si erano ritrovati in “Crocevia della morte”. La desolazione e l’ambientazione sono quelle della post depressione. Tuttavia la cifra divertita dei Coen non delude, grazie anche a un’impianto narrativo che si appoggia su una moderna Odissea.
L’uomo che non c’era” (2001) è il loro film più asciutto, ma probabilmente il più pieno di significati. Il grottesco, già affrontato in passato, si trasforma questa volta in tragedia. Una tragedia soprattutto interiore, che viene risucchiata da una spirale di accadimenti che distrugge la calma di un barbiere inappuntabile di un piccolo paese californiano. A Cannes arriva il premio ex aequo per la regia insieme a “Mulholland drive” di David Lynch.
Prima ti sposo e poi ti rovino” (2003) e “Ladykillers” (2004) rappresentano due parentesi meno felici nella filmografia dei Coen, abbondando di umori senza però incidere minimamente con qualcosa di più sostanzioso.
Non è un paese per vecchi” spazza via ogni dubbio sulla loro capacità di rinnovarsi e di saperci ancora colpire. Un thriller molto asciutto, lungo due ore ma senza commenti musicali, con un Javier Bardem al contempo ridicolo e inquietantemente monumentale. C’è anche questa volta un sottile strato di ironia che però non lascia spazio alcuno alla speranza. E’ un film tosto, forse uno dei pochi, tra quelli dei Coen, che andrebbe rivisto non tanto per godere delle sfumature, ma per capirne veramente l’essenza nichilista e spietata. Dalla notte degli Oscar arriva finalmente il premio per il miglior film, corredato da quelli per la miglior regia e la miglior sceneggiatura non originale.
Burn after reading” (2008) ci regala un Brad Pitt nel ruolo forse più azzeccato della sua carriera. Il film è una continua rincorsa iperbolica verso la distruzione assoluta. La società americana viene presentata con dei cliché incredibilmente rappresentativi e pieni di frustrazioni e reazioni mai così tanto reali.
A serious man” (2009) inserisce un uomo “serio” nel contesto di una comunità ebraica del Minnesota ed è probabilmente la loro opera più autobiografica. Il guizzo ironico e analitico è acutissimo. Si serve infatti di un linguaggio particolare, quello della comunità ebraica per l’appunto, ma soprattutto di una lente d’ingrandimento sulla noia sociale della moderna società americana, contemporaneamente conformistica e anarchica. Ha senso provare a rimettere insieme i pezzi?
Il grinta” (2010) è l'ultimo film dei fratelli Coen in ordine temporale e riprende fedelmente “Il grinta” di Henry Hathaway (1969). Se nel film originale John Wayne vinse il suo unico Premio Oscar, questa volta è Jeff Bridges ad aspirare alla statuetta con una prova degna del Grande Lebowski. Il film, inevitabilmente, finisce per essere un western vecchio stampo, condito dalla solita ironia subdola e strisciante dei registi americani, molto preciso e pulito ma forse un po' freddo. Il dubbio è che quando i Coen ricorrono ai remake (era già successo con “Ladykillers”) lo facciano per mancanza di idee. La verità è che quattro film negli ultimi quattro anni sono tanti e che probabilmente per i Fratelli Coen in questa fase conta soprattutto esserci. A dire se hanno ragione loro ci penserà la notte degli Oscar?