Tra le prime pellicole a concorrere per l’Orso d’Oro, la Berlinale ha mostrato quest’anno quella della regista danese Annette K. Olesen, “Lille Soldat”, un film che si fa portavoce degli effetti irrecuperabili lasciati dalla guerra nel corpo e nell’anima di chi torna in patria. Lotte, la ex soldatessa protagonista del film, torna in Danimarca dopo aver combattuto in Iraq, portando con sé profonde ed irrecuperabili ferite. C’è la guerra in tutto il film. Non una guerra narrata per immagini, ma una guerra restituita attraverso colori, stati d’animo e dialoghi. Una scelta registica che risulta ancora più efficace nel suo non bisogno di mostrare e nell’abilità di restituire comunque quel senso di insofferenza e disagio, di cui si caricano anche le scenografie. Lotte ha un peso dentro di sé che il film non svelerà mai fino in fondo, se non in maniera implicita, tradotto in momenti di rabbia o nel disordine di un appartamento lasciato a se stesso. Tornata a casa si troverà a sbattere contro altre realtà, altrettanto sofferte, come quella di Lily, una giovane donna legata al mondo della prostituzione, per la quale cercherà di fare qualcosa come per superare quel sentimento di vuoto lasciato dall’esperienza bellica. Il grigiore freddo di quegli ambienti però non riesce a scrollarselo di dosso, e la macchina da presa non riesce, o forse non vuole, penetrare fino in fondo la sua interiorità, lasciando così spazio al coinvolgimento dello spettatore.
Una regia al femminile che, anche senza particolari meriti in ambito di originalità narrativa, gioca nel dettagliato sul lavoro degli attori, sugli stati d’animo e sugli sconvolgimenti psicologici, permettendo di apprezzare vari livelli di interpretazione, validi ed estremamente adeguati. Un film da vedere con consapevolezza, senza paura di rimanere feriti. |